Un Museo diffuso. Le Pievi romaniche sul tratto appenninico della Via Francigena (II parte)

Seconda e ultima puntata del viaggio del nostro socio Giuseppe Perotti alla scoperta delle pievi romaniche lungo la via Francigena.

La prima parte dell’articolo è disponibile qui.

Riprendo l’auto e risalgo la stretta, ma molto panoramica val Baganza e raggiungo all’incrocio con la statale della Cisa la località di Berceto.

Berceto è un borgo antichissimo, fondato dal re longobardo Liutprando in seguito ad un miracolo accaduto nel 718 d.C. a San Moderanno, un vescovo pellegrino che si fermò in quel luogo mentre raggiungeva dalla sua nativa Francia la capitale della Cristianità.
Nei secoli successivi, data l’importanza strategica del luogo, passaggio obbligato tra Pianura Padana e costa Tirrenica, Berceto fu sede di molti scontri militari e devastazioni, passando sotto la protezione e la giurisdizione dei vari potentati del tempo.
Il Duomo, ovviamente dedicato a san Moderanno, è stato progettato e costruito nel XII secolo, anche se molte delle strutture che ammiriamo oggi sono state in parte aggiunte nei secoli successivi, mantenendo però un’armonia formale convincente. È certo che il bellissimo portale principale e quello laterale sul fianco sinistro sono gli originali del XII secolo.

 

Come per le altre pievi già visitate, anche questo duomo nasce su precedenti strutture longobarde; sappiamo anzi che già nel 719 d.C. Liutprando volle far costruire sul luogo del miracolo una chiesa con annesso monastero, di cui però non ci è rimasta alcuna traccia.

I visitatori, e fortunatamente durante la mia visita erano in numero incoraggiante, vengono colpiti dalle severe, ma armoniche proporzioni della facciata in pietra scura, ingigantite dall’angusta piazza triangolare che funge da sagrato e da punto di osservazione.
Sul portale una lunetta con una scena della Crocifissione in pietra locale, potentissima nelle fattezze arcaiche delle figure rappresentate. Una visione che non può non farci ipotizzare una visita in questi luoghi di scultori moderni, ma con lo sguardo rivolto a tempi lontani; penso ad esempio ad un Arturo Martini….

Ma è l’interno, a tre navate su croce latina, che provoca una suggestione ancora maggiore, esaltata nelle ore tardo- pomeridiane, quando dalle sottili e oblunghe finestre penetrano sciabolate di calda luce del tramonto che vivificano tutta la complessa e molto ben equilibrata architettura.
La concretezza dei conci di pietra rimarca il  preciso ed arioso disegno, che pur realizzato in epoche diverse, si accorda nel migliore dei modi con gli stili adottati: dal romanico di base, agli archi  gotici  delle grandi volte delle tre navate, che presentano alla chiave un angolo appena accennato, fino a certe raffinate decorazioni ed arricchimenti di epoca rinascimentali.
Ma uniformandomi ai pellegrini romei che, pur non avendo fretta, dovevano comunque raggiungere la ancor lontana Roma, lascio anch’io il Duomo di Berceto e riprendo il cammino; metaforicamente, perché in effetti io mi sposto in auto.

Raggiunto il non lontano passo della Cisa, punto di valico dell’Appennino, scendo per una strada moderna che non ricalca più la Via Francigena, ma che la interseca in più punti, come indicato da alcuni cartelli segnalatori turistici, e raggiungo sul fondovalle la città di Pontremoli.

Pontremoli, una piccola e assai vivace cittadina ha una storia che va dall’anno 4000 a.C. (sic!) con le ritrovate e misteriose “Statue- steli”, ad oggi, sede di un premio letterario ed altre vivacità culturali.
Sicuramente importante “mansio” della Via Francigena viene addirittura indicata e descritta nel 990 d.C. da Sigerico, arcivescovo di Canterbury, nel diario che compilò durante il suo ritorno in patria da Roma.
Ma di questa città, oggi toscana, ma che parla emiliano e ragiona in ligure, vorrei dilungarmi in una prossima narrazione, tali e tanti sono i suoi agganci con le arti e la cultura.
Poco oltre l’abitato di Pontremoli, sulla statale per Sarzana, in un tratto di fondovalle del Magra curiosamente piatto come un tavolo da bigliardo, compare all’improvviso sulla sinistra della strada la stupenda Pieve di Santo Stefano o Pieve di Sorano.

In questo sorprendente sito c’è addirittura profumo di preistoria!

Qui infatti sono state recentemente ritrovate, durante i lavori di restauro della Pieve alcune “Statue- stele” lunigianesi, non ancora ben studiate, ma databili tra il 3° e 4° millennio a.C.; e per non esser da meno, sono stati ritrovati anche i reperti archeologici di una antica fattoria-albergo romana, un agriturismo ante litteram, che operò per almeno i primi tre secoli dell’Era Cristiana.
Citata dall’arcivescovo Sigerico, quando annota sul suo diario la sosta nell’attuale Pontremoli, la pieve era già dunque presente nel X secolo. Nei secoli successivi la piana alluvionale ove sorge la chiesa fu più volte allagata dal Magra, per cui la zona venne abbandonata dalla popolazione, ma nella pieve non cessarono mai le celebrazioni delle funzioni religiose.

Un recente radicale restauro ha riportato la struttura alla sua bellezza originale: poche o nessuna decorazione di abbellimento, ma un sicuro e mirabile equilibrio architettonico, fatto di semplici conci di pietra raccolti nel vicino fiume, che hanno creato una struttura a tre navate, con tre absidi: una grande centrale e due laterali in linea con le due piccole navate.
Pilastri circolari di nuda pietra, con capitelli lisci, ma non privi di una indubbia e severa eleganza. Un semplice, ma lineare campanile completa l’insieme di sicura qualità stilistica, tipica del romanico più arcaico.

Certamente quando i romei, stanchi per la interminabile traversata appenninica scorgevano la bella ed accogliente Pieve di Sorano, elevavano a Dio una preghiera di ringraziamento, ma anche agli “spezapreda” che l’avevano costruita.

 

Giuseppe Perotti


Un Museo diffuso. Le Pievi romaniche sul tratto appenninico della Via Francigena (I parte)

Sembra incredibile, ma ancor oggi è possibile incontrare pellegrini che “a piedi“ percorrono di buon passo la Via Francigena, avendo per unica meta Roma. Si tratta in genere di stranieri: polacchi, tedeschi o irlandesi. Ma i proprietari dei radi bar o trattorie del tratto appenninico ricordano anche di aver ospitato degli scandinavi, e comunque anche italiani.

Sono ovviamente equipaggiati come gli escursionisti contemporanei delle nostre montagne, e non manca mai il bordone, sia pur in alluminio o in fibra di carbonio. Ciò che colpisce di loro è la tranquillità e la determinatezza nell’avanzare con qualunque tempo, avendo una meta ben chiara in testa: la Città Eterna.

 

Che cosa è un “Museo Diffuso“?

Le definizioni sono francamente troppe e spesso divergenti tra loro.

Ma un “Amico dei Musei” non si perde d’animo e con un ragionamento logico identifica il Museo Diffuso come un insieme di opere realizzate dall’uomo, collocate in uno spazio definito e omogeneo, in grado di dare una vera emozione al visitatore e che non siano racchiuse tra le quattro canoniche pareti che contraddistinguono un museo tradizionale.

Con questo semplice concetto sono andato alla ricerca di opere d’arte innalzate quasi un millennio fa dall’uomo, per la maggior parte a me ancora sconosciute e che ritenevo potessero nel loro insieme formare un originale ed raffinato Museo Diffuso.

Mi sto riferendo  alle pievi romaniche che costellano il tratto appenninico della antica Via Francigena, quel leggendario, ma realmente esistito cammino che già nel lontano e tenebroso anno Mille accompagnava i pellegrini d’Oltralpe alla visita delle sacre Basiliche romane.

E ciò già avveniva  tre secoli prima che Bonifacio VIII istituisse l’Anno Santo!

Era un cammino che iniziava a Canterbury nell’odierna Inghilterra e dopo aver by-passato le acque tempestose della Manica con le modeste imbarcazioni di allora, proseguiva  per oltre duemila chilometri in Francia e nell’odierno Cantone svizzero del Vallese, per entrare infine in Italia.

Ben 1015 chilometri si dispiegavano nel nostro Paese, dal passo del Gran San Bernardo giù per la Pianura Padana ( Ivrea, Vercelli, Pavia, Piacenza, Fidenza ), per poi inoltrarsi tra le alture dell’Appennino e superarle al passo della Cisa, chiamato allora la Via di Bardone,  per scendere poi nelle vallate toscane e liguri toccando Pontremoli, Sarzana ed inserendosi infine negli itinerari delle vie consolari romane Aurelia e Cassia laddove erano ancora percorribili, o su nuovi sentieri di fortuna tracciati attorno alle zone disastrate.
Lambendo località come Lucca, San Gimignano, Siena, Radicofani, Bolsena e Viterbo i pellegrini giungevano in vista della grande Basilica costantiniana di San Pietro a Roma.

Un viaggio di grande devozione religiosa, che poteva diventare assai pericoloso per le difficoltà insite nell’accidentato percorso, e anche per  possibili  incontri con pericolosi malviventi, se lungo tutto il tragitto gli Ordini Monastici e i Signori dei luoghi  non avessero provveduto ad arricchire la Via Francigena di posti di ristoro e pernottamento a distanze medie di una giornata di cammino, ricalcando gli schemi delle famose “mansiones e submansiones” romane.
Accanto agli ospizi od ospedali per i romei  sorsero naturalmente delle pievi nello stile romanico di allora, in pietra grezza molto suggestiva, ove i pellegrini potevano rinnovare le preghiere a Dio in attesa del loro grande incontro della vita nelle Basiliche romane.

Nelle zone di pianura è ormai difficile ritrovare tracce della Via Francigena, tali e tanti sono stati gli stravolgimenti  nei secoli dovuti a cause naturali, e soprattutto per mano dell’uomo. Curiosamente il tratto più difficile e impegnativo, i 60 chilometri di montagna tra Fornovo e Pontremoli, è quello che ha conservato maggiori tracce della Via, ancor oggi percorribili a piedi per diversi tratti sul fondo stradale originale di rustico selciato, immersi in boschi di secolari castagni.

Ma soprattutto hanno custodito meravigliose opere architettoniche religiose che arricchivano e glorificavano il faticoso cammino dei pellegrini.
Il mio viaggio di ricerca inizia in effetti quando sono al limite della pianura.

Lasciata l’autostrada e valicato un lunghissimo ponte in mattoni sul fiume Taro, giungo nell’abitato di Fornovo, un insieme di case abbastanza anonime e senza caratteristiche particolari.
Invece di proseguire per l’antica strada della Cisa , lascio l’auto e vado a visitare a piedi il nucleo più antico del paese, nella parte bassa, vicino al fiume.

All’improvviso il reticolo di viuzze lascia spazio ad una piazzetta raccolta sul cui sfondo si erge la chiesa che non ti aspetti e scorgo la bella e larga facciata della Pieve di Santa Maria Assunta. È questa la prima importante testimonianza della Via Francigena che si incontra non appena la pianura lascia il posto alle lievi ondulazione che preannunciano l’Appennino.

Costruita su una precedente struttura di età longobarda, l’attuale chiesa di puro stile Romanico, a tre campate, è datata attorno al XII secolo. La pieve aveva in quel tempo una duplice funzione: luogo di celebrazione delle funzioni religiose e riparo sotto un porticato antistante la chiesa per i pellegrini in transito.
Nel XIII secolo una nuova facciata, l’attuale, inglobò il portico, aumentando gli spazi interni per le funzioni religiose, riservando la funzione di ospizio ad altre antiche costruzioni retrostanti la chiesa. Molto bello il portale con una cornice ad arco a tutto sesto, riccamente decorata in altorilievi e soprattutto i due grandi capitelli tipicamente medioevali con figure di guerrieri e animali fantastici.
Una curiosa caratteristica della facciata e del fianco della pieve è la presenza di grossi frammenti di sculture medioevali inseriti nel muro apparentemente senza un ordine stilistico. Tra queste spicca per originalità una figura umana di pellegrino con le bisacce, il bordone, tipico bastone del romeo con il manico ricurvo e le chiavi con le quali avrebbe dovuto metaforicamente aprire le porte delle basiliche romane. Sono sculture ad altorilievo molto importanti e suggestivi nella loro primitiva drammaticità, attribuibili se non a Benedetto Antelami, sicuramente alla sua scuola.
Probabilmente le sculture provengono da un pulpito interno alla pieve che in età più tarda fu smontato in seguito a restyling della struttura in uno stile più in voga in quel periodo.

Lasciata Fornovo mi avvio per una stretta strada secondaria provinciale che ripercorre la Francigena.
Dopo una dozzina di chilometri, sono ormai nella defilata e poco battuta val Baganza, che corre parallela alla più nota val Taro, su una piccola balza ricoperta da prati scorgo, circondata da una dozzina di vecchie e belle case, la nobile e antichissima Pieve di Santa Maria o Pieve di Bardone. Punto di transito obbligato della Via Francigena, anche questa pieve fu costruita nell’XI secolo su precedente impianto religioso di età longobarda.
Pur essendo stata rimaneggiata più volte nei secoli successivi, ha mantenute intatte le linee romaniche originali. Come per la pieve precedente, anche qui si ritrovano sculture e altorilievi di età romanica, tra cui una bellissima Deposizione dalla Croce, sicuramente frammenti provenienti dall’interno della già visitata pieve di Fornovo, di chiara origine antelamica, che richiama fortemente la Deposizione conservata nel Duomo di Parma. L’attenzione del visitatore viene attirata da una rustica e antichissima costruzione in mattoni vicino all’abside della chiesa: forse l’ ospizio per i romei; ma non ho prove a conferma di ciò.
Quello che sicuramente stupisce, anche da una certa distanza, è invece il campanile. In pietra come la chiesa, non molto alto, ma di pianta con dimensioni generose, è caratterizzato dai sedici finestroni con arco a tutto sesto posti su due livelli che danno luce alla cella campanaria, quasi che, con la facilità con cui il suono delle campane poteva raggiungere al vespro i luoghi più lontani della valle, volesse rassicurare i pellegrini che la meta della tappa giornaliera era ormai prossima.

Uno dei cinquanta abitanti del luogo, vista la mia difficoltà a fotografare dalla stradina prospiciente la facciata la panoramica della Pieve, mi invita a salire su una terrazzetta di casa sua, un po’ più arretrata, e quindi ottima per la ripresa dell’insieme. Grazie!

continua…
(cliccare qui per la seconda parte)