Con la mostra di Tina Modotti si rinnova un antico interrogativo

Nel dicembre del 2013, dopo aver visitato la bella mostra di fotografie di Gianni Berengo Gardin, allestita presso il Centro internazionale di fotografia, inserii su questo sito alcune mie considerazioni sulla mai risolta questione della valenza artistica o artigianale della fotografia stessa.

Non avrei ripreso l’argomento se non ci fosse oggi l’occasione della esposizione, sempre al Centro internazionale di fotografia, di opere di Tina Modotti (che gli Amici dei musei di Verona andranno a visitare il prossimo 20 febbraio).

Tina Modotti fu una singolare figura di “ italiana del mondo” che trovò nella fotografia, grazie anche al suo maestro ispiratore e compagno Edward Weston, una profonda ragione di vita.

Nasce sul finire dell’Ottocento a Udine da famiglia numerosa e povera. Il padre, operaio emigrante, si reca prima in Austria poi in USA a San Francisco. Primi anni scolastici a Udine, poi, dodicenne, il lavoro in filanda. A diciassette anni raggiunge il padre in California dove fa l’operaia, la camiciaia, la modista.

Diventa anche attrice nella nascente vicina Hollywood, finchè conosce Edward Weston, già allora famoso fotografo statunitense.

Tra il 1920 ed il 1927, impadronitasi rapidamente dei segreti della fotografia, soggiorna a più riprese in Messico. Ed è proprio questo importante Paese latino-americano che vede il periodo più intenso e creativo di  Tina Modotti fotografa.

Le sue fotografie, ovviamente in bianco e nero, scattate con fotocamere ingombranti e tecnicamente molto semplici, ci danno un’immagine vivida ed impressionante di un mondo povero, ma orgoglioso della propria individualità, colto in un periodo particolarmente turbolento, sconquassato da rivolte che tendono ad  affrancare le popolazioni più bisognose da sudditanze secolari.

Nell’ultimo decennio della sua breve vita, morirà infatti nel 1942, affiancherà alla sua intensa attività di fotografa un pericoloso ed avventuroso esercizio di agitatrice politica.

Comunista militante, essendo vicina a molti esponenti internazionali di quel partito, viene arrestata ed espulsa dal Messico. La troviamo dapprima a Berlino, poi in altre capitali europee come Parigi e Mosca. Nel 1936 si reca con i suoi compagni di fede politica in Spagna, dove infuria la guerra civile. Rientrerà in Messico nell’ultimo periodo della sua vita.

Ma a noi interessa la Tina Modotti fotografa, e di questo saremo ampiamente soddisfatti visitando prossimamente la Mostra di Verona, ma soprattutto siamo curiosi di conoscere il suo pensiero sulla Fotografia, espresso attraverso molte lettere inviate ad amici e compagni.

Quando alcuni critici, commentando sue foto, parlano di “arte” e di “artistico”, il suo giudizio è tranchant:

“Mi considero una fotografa, niente di più; … cerco di produrre non arte, ma oneste fotografie, senza distorsioni o manipolazioni”.

Ancora la Modotti ricorda ad un amico:

“… e molti fotografi vanno alla ricerca dell’Effetto Artistico, imitando altri mezzi di espressione grafica. Il risultato è un prodotto ibrido che nulla apporta alla Qualità Fotografica”.

Parole taglienti che dovrebbero por fine ad ogni discussione in merito.

In un altro suo scritto fa invece una chiara distinzione tra buone e cattive fotografie.

“Buone sono quelle in cui l’operatore, utilizzando nel migliore dei modi i mezzi tecnici che lo strumento offre, registra con obiettività la vita in tutti i suoi aspetti. Cattive fotografie sono al contrario quelle in cui l’operatore, che certamente soffre di un complesso di inferiorità, ricorre ad ogni sorta di imitazione, attraverso trucchi e falsificazioni, quasi si vergognasse di riprendere  la realtà  come si presenta. La fotografia è il presente: fissa l’attimo fuggente.
Se il fotografo ha sensibilità ed intelligenza, il risultato dello scatto raggiunge il massimo livello”.

Sono parole chiarissime che non necessitano di alcun commento, ma mi portano comunque a formulare una riflessione: la maggior parte dei grandi e grandissimi artisti, che dalle più antiche civiltà fino ai giorni nostri hanno prodotto opere di incredibile forza e bellezza, si ritenevano artigiani o artisti?

Penso proprio che la gran parte di essi si ritenesse artigiano, e come tali fossero riconosciuti dai loro contemporanei.

Scrutavano e decrittavano la realtà che si presentava loro e la riproducevano con diverse modalità su supporti di vario tipo, sulla base delle tecniche che avevano appreso in bottega, ma soprattutto attraverso la sensibilità della propria cultura e del proprio stato d’animo.

In seguito i critici, attraverso lo studio e l’interpretazione delle loro opere elevarono molti di loro, e giustamente, al rango di artisti, e per alcuni anche di sommi artisti.

Ma loro non fecero in tempo a saperlo.

Sono considerazioni molto intuitive, ma che mi rafforzano l’idea che un artista prima di essere tale, o peggio ancora, di autoproclamarsi tale, debba conoscere le tecniche ed il mestiere dell’artigiano.

E ciò vale, credo, anche per la fotografia.

Fatte queste considerazioni, constato con amara ironia come il tramonto della fotografia basata su processi chimici, per la verità difficile, complessa e costosa, a vantaggio della fotografia digitale che ha incrementato di almeno mille volte il numero di scatti che miliardi di esseri umani replicano ogni giorno, invece di migliorare ed affinare la capacità di fotografare, abbia prodotto una scadente banalizzazione.

Scomparsi gli ostacoli tecnici che un tempo obbligavano il fotografo diligente a predisporre i tempi di posa, l’apertura del diaframma, la messa a fuoco e gli eccessivi contrasti di luce, oggi ha anche dimenticato il piacere di predisporre con intelligenza l’inquadratura migliore e più appropriata.

Si scatta a mitraglia un incredibile numero di foto, e quando si è stanchi si rivolge la fotocamera (o il cellulare o il tablet) verso sé stessi e si spara una serie di…selfie.

Una delle tante occasioni mancate da un distorto concetto di progesso.

Un vero peccato.

 

Giuseppe Perotti