Un "Grande Castelvecchio": gli esempi a cui guardare

L’idea di adeguare il Museo di Castelvecchio alle esigenze richieste oggi per una struttura più moderna ed efficiente che, pur mantenendo inalterata la stupenda realizzazione architettonica ed espositiva di Carlo Scarpa,  possa dotarsi di tutte quelle strutture atte a migliorare l’accoglienza, la gestione e i servizi tecnici che fanno di una importante raccolta di opere d’arte un Centro di incontro e di studio, era già da anni presente nel pensiero e nelle azioni degli Amici dei Civici Musei. Non ci fu Assemblea, Consiglio Direttivo o altra riunione in cui il tema non venisse discusso ed approfondito.

Nel 2017 prese quindi corpo l’idea di concretizzare i punti cardine del problema con un documento scritto. Nel novembre dello stesso anno venne dato alle stampe il volume “Fantasie per Castelvecchio”.

Un’agile e ben articolata pubblicazione che accanto ad una precisa esposizione grafica e fotografica  della disposizione attuale della volumetria di Castelvecchio nella sua interezza, pone l’attenzione su come utilizzare gli spazi attualmente occupati dal Circolo unificato dell’Esercito, creando un Gabinetto Numismatico, un Laboratorio per la manutenzione delle opere d’arte, un Deposito per le opere non esposte, un’Aula didattica per giovani e meno giovani, una Biblioteca d’Arte, la Direzione e gli Uffici del Museo, una Sala polifunzionale per conferenze e i Servizi per il pubblico, come bookshop, guardaroba e bagni. Il progetto prevede anche la realizzazione di un ampio e confortevole Caffè-Ristorante per visitatori e turisti.. L’accoglienza di questa pubblicazione è stata molto positiva, tant’ è che nel marzo 2019 nacque il comitato “Civica Alleanza per un Grande Castelvecchio” allo scopo di estendere ad una più ampia cerchia di appassionati l’idea proposta dagli Amici dei Musei Civici di Verona.

Per far conoscere meglio alle autorità e alla cittadinanza gli intendimenti della “Civica Alleanza” sono stati indetti degli incontri quale una Seduta tecnica presso l’Ordine degli Architetti di Verona, cui ha fatto seguito nel mese di maggio una Conferenza Stampa esplicativa presso la Camera di Commercio di Verona. Il ciclo di incontri propedeutici è stato quindi completato con la Tavola Rotonda tenuta il 19 giugno 2019 presso la Società Letteraria.

E’ stato pienamente raggiunto il focus cui tendevano i promotori della “Civica Alleanza”: migliorare radicalmente l’offerta culturale veronese, pensando soprattutto ai turisti italiani e stranieri di rango che, nonostante il marcato incremento in città dei “turisti mordi e fuggi”, sono ancora fortunatamente una parte fondamentale del movimento turistico veronese. Non solo, l’adeguamento in Castelvecchio dei servizi di accoglienza e di gestione al livello dei più importanti musei italiani ed europei farà aumentare ulteriormente il prestigio della città anche presso tutti coloro che ancor oggi la visitano in modo un po’ troppo superficiale.

Va sottolineato che l’operazione verrà portata avanti con un alto spirito di collaborazione e di rispetto per le Forze Armate, che hanno compreso le mutate esigenze culturali della città, senza che alcuno dimentichi l’importanza e il prestigio che il Mondo Militare ha avuto nei secoli in Verona.

A suffragare la bontà dell’azione intrapresa nel corrente mese di novembre si sono tenute due importanti conferenze di direttori di musei che hanno illustrato come siano riusciti a dare un nuovo appeal ai celebri musei italiani da loro diretti.

James M. Bradburne, direttore da qualche anno della Pinacoteca di Brera e della attigua Biblioteca Braidense in Milano, aprendo il classico ciclo di Conferenze che da oltre mezzo secolo si tengono in Verona, organizzate  dal Civico Museo di Castelvecchio, dall’Università degli Studi di Verona con il supporto degli Amici dei Civici Musei, ha raccontato come in quattro anni sia riuscito a  rivoluzionare Brera, rendendola più appetibile anche per quegli strati di potenziali visitatori che non si erano mai avvicinati ad un museo o lo avevano fatto in maniera assolutamente sporadica.

James Bradburne in front of ‘St Mark preaching in Alexandria’ Pinacoteca di Brera Milan

Oltre al raffinato rifacimento degli ambienti napoleonici che da due secoli accoglievano le opere e che si presentavano nella veste non molto brillante eseguita nella ristrutturazione degli anni Cinquanta del secolo scorso dopo i gravi danni bellici subiti, ed esaltato da un nuovo ed efficace impianto di illuminazione, il direttore ha stabilito di porre al centro del museo il visitatore, dandogli l’illusione di essere quasi partecipe delle opere eseguite secoli prima da celebri pittori. Il museo accoglie bambini anche molto piccoli come fossero a scuola o all’asilo, con la possibilità di trovare nelle sale fogli e pennarelli per… imitare i grandi del passato. Opportunità del resto ampliata anche agli adulti che hanno la possibilità di copiare su materiale messo loro a disposizione i capolavori esposti. In altre parole il visitatore si deve sentire a suo agio ed avere la possibilità, anche se digiuno d’arte, di colloquiare in tutta libertà con ciò che sta ammirando.

L’altra importante conferenza è stata tenuta presso la Società Letteraria da Flaminia Gennari Santori, direttrice della Galleria Nazionale di Arte Antica a Palazzo Barberini ed a Palazzo Corsini in Roma.  Un museo di livello mondiale con opere tra le più celebri in assoluto, che ha avuto una vita lunga, ma un po’ complicata. Un museo di difficile conduzione perché sdoppiato in due sedi. Sedi prestigiosissime, ma distanti tra loro: Palazzo Barberini,  realizzato dai due geni del barocco romano Bernini e Borromini,  era anche sede del più importante Circolo Ufficiali d’Italia. Una splendida dimora, ma che relegava il museo in ali del palazzo distanti tra loro e su piani diversi. Una volta liberati gli spazi occupati dal Circolo Ufficiali e ristrutturati i percorsi museali in una chiave più razionale, la direttrice, preso atto del mutato atteggiamento del visitatore contemporaneo, molto curioso, ma in genere poco preparato, ha dovuto ricorrere ad artifici per agganciare l’attenzione del visitatore, facendo anche particolare attenzione ai visitatori più piccoli, ma non per questo meno curiosi ed interessati.

Ecco poi un caso particolare che rivela la grande attenzione dei moderni direttori di musei: la direttrice ha notato che i visitatori con sindrome di autismo dopo aver guardato anche per pochi secondi un’opera d’arte ricordano in seguito con   stupefacente precisione particolari dell’opera che possono essere sfuggiti persino agli esperti. Potrebbe essere l’occasione per gratificare quelle speciali persone, dando loro l’opportunità di descrivere ai compagni ciò che loro “supervedono”.

Come è emerso dalle due conferenze: museo sì, ma non solo museo. Molto, molto altro ancora.

Giuseppe Perotti


Le Comunità Museali. Nuove interpretazioni (Parte II).

Martedì 10 settembre, con un lodevole anticipo sul tradizionale incontro di apertura dell’anno sociale presso un’antica villa del territorio veronese, l’Associazione degli Amici dei Civici Musei di Verona ha chiamato i suoi soci ed altri qualificati appassionati d’arte, presso la Sala Galtarossa del Museo degli Affreschi G.B. Cavalcaselle, dove era stato organizzato un incontro dibattito dal titolo accattivante e molto attuale “Le Comunità Museali. Nuove interpretazioni”. Una indicazione che racchiude e sintetizza le motivazioni per cui in oltre mezzo secolo di attività  si siano via via trasformate le gloriose Associazioni degli Amici dei Musei.

Dopo un saluto della Direttrice dei Civici Musei di Verona Francesca Rossi, hanno preso la parola i relatori prof.ssa Paola Lanaro di Ca’ Foscari, la dott.ssa Anna Gussoni, giovane laureata con una tesi sul tema in discussione, l’arch. Giulio Avon, professionista e già presidente della Associazione degli Amici del Museo Guggenheim di Venezia, il nostro socio dott. Pietro Giovanni Trincanatoresponsabile del Gruppo Giovani dell’Associazione veronese ed il presidente della stessa dott. Francesco Monicelli. Pur trattandosi di relatori specialistici e di alto livello culturale, tutti si sono adoperati per mettere al meglio in risalto le peculiarità ed i nobili scopi per i quali hanno operato fino ad oggi le Associazioni degli Amici dei Musei italiani, come del resto quelle di tutto il mondo.

Come ha ben rimarcato la prof.ssa Lanaro, le Associazioni degli Amici partecipano ormai di diritto alle Organizzazioni Museali, mentre l’arch. Avon ha sottolineato le differenze non solo formali che contraddistinguono le associazioni di stampo americano, con una impronta molto famigliare ed avvolgente ( tipo quella da lui presieduta, sia pur a Venezia, ma decisamente USA) da quelle di formazione europea. Dal dibattito è emersa la necessità che vengano evitate interpretazioni estemporanee nella conduzione dei musei, ma che prosegua invece la collaborazione con gli Amici, per far sempre meglio conoscere le realtà museali a strati di popolazione che potenzialmente sarebbero interessate, ma che hanno poca o punto conoscenza della loro esistenza. Durante il dibattito è stata ben illustrata la trasformazione delle Associazioni, che da piccoli club di facoltosi mecenati si sono allargate ad una più vasta cerchia di appassionati.

Particolarmente interessante la relazione di Pietro Giovanni Trincanato che ha posto l’attenzione sul Gruppo Giovani dell’Associazione di Verona di cui è responsabile. Anche se per la giovane età i soci non hanno ancora molte opportunità tangibili da offrire, la assidua partecipazione del loro gruppo, con iniziative belle e originali che cercano di coinvolgere altri giovani e giovanissimi allo splendido mondo dell’arte, sta creando un ponte ideale tra loro e le generazioni dei seniores.

Il Gruppo Giovani ha ben compreso che la formazione scolastica italiana punta oggi su obiettivi di cultura collettiva, trascurando quel tipo di cultura specifica, come lo è appunto la Storia dell’arte. L’auspicio è pertanto quello di creare nei musei spazi idonei ad ospitare iniziative diversificate che si leghino alle opere contemporanee, e che fungano da calamita per i giovani, sperando che restino coinvolti in maniera più avvolgente dalla “Bellezza Assoluta” che sprigiona l’Arte di ogni tempo.

Il presidente degli Amici di Verona, Francesco Monicelli, nella sua lunga ed esauriente esposizione ha sposato la tesi di Trincanato, come ideale transfert per le generazioni future. Prendendo spunto da quanto già illustrato dagli altri relatori il presidente rimarca come ogni Associazione di Amici si ispiri al Museo che ha adottato. Così i vari musei Guggenheim, da quello di New York alle figliazioni europee ed asiatiche dedicati all’Arte Contemporanea, hanno Associazioni di Amici che si rivolgono a quel particolare settore artistico. L’Associazione di Verona nata all’ombra di un Castelvecchio rinnovato da Carlo Scarpa potrebbe essere ricordata, almeno per i primi anni della sua vita come” L’Associazione degli Amici di Scarpa di Castelvecchio”. La maturazione e l’evoluzione dei tempi ci ha portati alla attuale denominazione di “Associazione Amici dei Musei civici di  Verona”. Una definizione appagante che ci impone di lavorare duramente per tutte le realtà museali civiche della città, e non solo quelle legate alle Arti. Sarà un compito difficile ed insidioso. Insidioso perché la tendenza ovvia di chi presiede un gruppo di persone associate è quello di fare una selezione per far emergere i migliori. Una scelta pericolosa che può portare ad una rapida auto- estinzione.

Al contrario un allargamento della base sociale permette di evidenziare più facilmente nuove forze fresche e motivate, aumentando nel contempo il prestigio dell’Associazione stessa. Il presidente Monicelli ha concluso il suo intervento ricordando un aforisma su chi visita da turista una città occidentale.                                                                                                                     Le quattro massime da osservare sono:

  • Girare la città a piedi
  • Visitare la Cattedrale
  • Visitare il Teatro
  • Visitare il Museo

Verona ha tutte le carte in regola per entrare nel novero delle Città storiche dell’Occidente di massimo prestigio.                                                                                                                                                                       E gli Amici dei Civici Musei saranno sempre in prima linea per rendere la visita a Verona indimenticabile.

                                                                                                                             Giuseppe  Perotti


A spasso con il nonno per la Toscana

Ho accettato volentieri di fare un tour automobilistico per la Toscana con il nonno perché avrei avuto l’opportunità di visitare Arezzo, una città fondamentale per la storia dell’arte, ma un po’ defilata dai consueti circuiti turistici che insistono soprattutto su Firenze, Siena e… la Piazza dei Miracoli a Pisa.

Giunti in città di buon mattino, essendo partiti dalla costa versiliese, abbiamo dapprima attraversato un quartiere residenziale di stampo otto-novecentesco, non esaltante, ma molto ordinato, caratterizzato nella omonima piazza dalla statua di Guido Monaco, quel frate medioevale che riordinando in chiave razionale la scrittura musicale permise a musicisti europei di primeggiare, da lì in poi, e per sempre, sulle altre espressioni armoniche di altri continenti.
Ma ecco che percorse poche decine di metri di una strada medioevale in leggera salita, una piazza sulla destra mi rivela la facciata incompiuta della chiesa di San Francesco.

Apparentemente rustica, perché di essa vediamo solo la struttura grezza in cotto del XIII secolo che avrebbe dovuto supportare il rivestimento lapideo, risulta comunque elegante e suggestiva. Mi viene spontaneo il confronto con certe soluzioni strutturali di Mario Botta, un moderno discendente dei Maestri Comacini.

Presso l’Accademia di Architettura della Svizzera Italiana di Mendrisio, dove sto frequentando il secondo anno di corso, ho avuto infatti la possibilità di verificare come questo grande maestro (non vuole che lo si qualifichi come archistar), nella progettazione si ispiri, in chiave attuale, alle strutture più significative del passato,quando venivano valorizzati materiali poveri come il legno, il mattone, la pietra.

Ma entrati in chiesa cambia totalmente la scena.

Rinviando il commento su bellissime tavole lignee trecentesche appese alle pareti ed altrettanto suggestive porzioni di affreschi salvate da un sapiente restauro, l’attenzione è subito calamitata dalla Cappella Maggiore interamente affrescata da Piero della Francesca attorno al 1450.

Sono davanti al ciclo di affreschi conosciuto come La leggenda della croce. Uno dei capitoli basilari della storia della pittura di ogni tempo.
Se Giotto aveva rivoluzionato la pittura, superando la staticità delle figure ritratte in epoche precedenti, forse un retaggio del mondo bizantino, Pietro ci introduce nel non ancora ben codificato Rinascimento.

Il recente perfetto restauro, esaltando la vivace cromaticità, ci fa gustare scene religiose (ma che potrebbero rappresentare anche scorci della vita delle Corti del tempo) dove la postura e l’espressione di ogni personaggio richiamano precisi canoni filosofici neoplatonici, esaltati dalla cultura del tempo.

Si resta attoniti e ammirati davanti alla perfetta costruzione delle scene ed alle espressioni decise, quasi imperiose di certi personaggi.

Piero vale da solo un viaggio ad Arezzo.

Ma il nonno già conosceva bene la città, e attraverso strade e stradine mi ha condotta a scoprire all’improvviso la stupefacente facciata della Pieve di Santa Maria.

Una vasta parete rettangolare in arenaria aretina, una pietra tenera di tonalità giallo azzurrognola, ormai esaurita da molti anni, che per la corrosione del tempo presenta disegni irregolari e caratteristici. Ma la bellezza architettonica della facciata è esaltata da una serie di gallerie cieche sovrapposte , che alleggeriscono l’imponente struttura, facendola assomigliare più ad un antico palazzo imperiale  che ad una Pieve consacrata.

Oltre un centinaio di sottili colonnine, tutte diverse tra loro, e così pure i capitelli e gli archetti che le sovrastano. Una meraviglia assoluta!

Non si può non ricordare quelle incredibili compagnie di piccapietra medioevali, che pur nell’unicità dell’opera compiuta avevano la facoltà di creare il singolo pezzo con proprie varianti al disegno d’insieme.
Alle spalle della Pieve la celebre Piazza Grande, dove si svolge annualmente la Giostra del Saracino e mensilmente una mostra-mercato dell’antiquariato.

Ma io ho soprattutto ammirato nella piazza la bellissima abside della Pieve, con accanto il sontuoso palazzo della Fraternità dei Laici, con un’ala in stile gotico accanto a quella rinascimentale.
Molto belle ed equilibrate le case trecentesche sul terzo lato della piazza, sulle cui facciate emergono le pietre di antichi archi gotici o finestrelle rinascimentali dovute a successivi rimaneggiamenti. Un compendio dell’architettura italiana su un grumo di case abitate ininterrottamente da almeno settecento anni!
La severa ma molto equilibrata  Loggia del Vasari racchiude la piazza nella parte alta.

Sì, perché il Vasari era nato ad Arezzo, ed anche lì creò opere belle ed importanti.

Saliti fino al Pratone, il giardino pubblico al sommo della collina su cui giace Arezzo antica, abbiamo visitato il grande e molto suggestivo Duomo in stile gotico (a parte l’alto campanile: gotico si, ma del XIX secolo….).

Disceso il colle per stradine alle spalle del Duomo, in un quartiere appartato e silenzioso, in fondo ad una piazza selciata in cotto e ben ombreggiata da grandi alberi, sorge per incanto una piccola meraviglia gotica: la chiesa di San Domenico, caratterizzata da una facciata che ingloba sulla destra un bel campaniletto a vela con doppia cella campanaria.

All’interno, una navata unica decorata da affreschi di scuola locale, molto severa e ricca di spiritualità, l’occhio viene attratto da un grande crocifisso posto nella penombra sopra l’altar maggiore. Con l’accensione dell’illuminazione elettrica temporizzata si scopre una sublime opera di Cimabue!

Uno dei suoi famosi crocifissi, forse non il più noto, ma una grandissima opera che rivela la forte religiosità del pittore espressa attraverso la rappresentazione del corpo del Cristo contorto per le sofferenze inflitte dai carnefici.

Per non farmi mancar niente il nonno nel viaggio di ritorno, approfittando di un mio pisolino, ha fatto una non prevista uscita dall’autostrada a Pistoia.
Una visita molto breve al centro della città ci ha rivelato una struttura medioevale stupenda e ben conservata, con una piazza del Duomo tra le più belle della Toscana, e chiese che conservano opere scultoree medioevali di unica bellezza, tra cui due di Giovanni Pisano!

Sarà opportuna una più profonda visita a Pistoia, anche perché, udite udite, neppure il nonno  conosceva questa città toscana.
Il tour si è concluso nel tardo pomeriggio, dopo una lunga ricerca per stradine comunali attorno al Monte Pisano della Certosa di Calci, conosciuta anche come Certosa di Pisa.

Un complesso monastico veramente grandioso di origine medioevale, ma interamente ristrutturato nel Sei-Settecento, con grandi costruzioni e chiese, intervallate da corti e giardini interni posto in una valletta silenziosa ed appartata ai piedi del Monte Pisano, a pochi chilometri da Pisa

Purtroppo  era una giornata interdetta alle visite, per cui in una prossima comunicazione vi racconterò sia delle bellezze di Pistoia sia della Certosa di Calci, a meno che il nonno tragga dal cappello qualche visita ad un terzo sito importante,ma ancora sconosciuto alle carte geografiche.

 

Carlotta Paolucci delle Roncole


Gli “Amici dei Musei” ieri, oggi, domani

Care Amiche, cari Amici,

riprendiamo le attività dell’associazione e del sito dopo la pausa natalizia con una bella riflessione del nostro Giuseppe Perotti sul ruolo degli Amici, perfetta per rinnovare il nostro “grazie!” a Isa di Canossa, presidente uscente, e per augurare buon lavoro al nuovo presidente Francesco Monicelli!

Volendo risalire all’Evo Antico una delle figure emergenti con una personalità colta e raffinata, amante e protettore delle arti, della poesia e delle scienze fu senz’altro Mecenate.

Amico e fidato consigliere di Augusto, ma anche dei più grandi uomini di lettere ed arti dell’epoca, Orazio tra questi, è rimasto nel tempo il simbolo dei protettori delle arti, tanto che ancor oggi il termine “mecenatismo ”sta ad indicare la nobile funzione di chi, pur essendo al di fuori delle strutture pubbliche di tutela e conservazione dei beni culturali, opera a livello personale per contribuire con varie modalità alla loro conservazione e valorizzazione nel tempo.

Anche se allora nella Roma Imperiale non c’erano musei pubblici nel senso moderno del termine, la figura di Mecenate può a ragione rappresentare l’antesignano degli attuali Amici dei Musei di tutto il mondo. Nei 1700 anni a seguire grandi amici e protettori delle arti e degli artisti furono coloro che esercitavano il potere civile e religioso nelle mille sfaccettature che caratterizzavano l’evoluzione storica dell’Europa. Quasi sempre la figura del protettore delle arti si identificava con il committente delle opere stesse, ed agiva in tal senso per amore del bello e per arricchire le proprie dimore, ma soprattutto per accrescere la propria potenza ed il prestigio pubblico essendo ancora assai lontani i tempi in cui verranno costruiti i primi musei per la gioia ed il godimento di tutta la popolazione senza distinzione di classe.

In quel tempo la concezione di una nuova opera d’arte, come dimostrazione di ricchezza e potere, non poteva dare risalto ai moderni concetti di tutela e conservazione. Spesso i nuovi proprietari di un sito già riccamente impreziosito di opere d’arte, le facevano disinvoltamente raschiare o distruggere per sostituirle con altre commissionate agli artisti più in voga del momento, e che molto spesso lavoravano esclusivamente per quel proprietario. Così, se nella Cappella Sistina il Buonarroti ricoprì bellissimi e recenti affreschi con opere che hanno toccato per potenza e perfezione stilistica le vette dell’arte di ogni tempo, dal Seicento in poi una eccessiva volontà riformatrice denaturò belle chiese romaniche e gotiche con pesanti ristrutturazioni nell’onnipresente stile Barocco. Solo con la caduta di Napoleone, che fra tanti sconvolgimenti provocò anche la lenta, ma decisa trasformazione degli Europei da sudditi a cittadini dei nascenti stati, sorse l’idea di museo anche negli Antichi Stati preunitari, inteso come luogo deputato alla raccolta di opere d’arte dove poter esercitare una tutela artistica che favorisse la miglior conservazione, oltre al godimento visivo delle opere da parte di tutti.

Si concretizzava così la possibilità di far conoscere ai cittadini una parte importante di quelle favolose opere che per secoli erano rimaste racchiuse in castelli, palazzi o conventi, off-limits per tutti. L’Ottocento vide quindi la nascita di molte realtà museali, per la maggior parte di proprietà pubblica, statale o civica, ma anche di pertinenza ecclesiastica o di privati cittadini. Buona parte del materiale esposto nei musei italiani nati nell’Ottocento proveniva dalle spogliazioni e dalle soppressioni napoleoniche, ma anche da importantissimi lasciti di illustri casate italiane. Le collezioni andarono poi arricchendosi per altri lasciti, donazioni e acquisti. In parallelo a queste luminose realtà andavano lentamente formandosi gruppi di appassionati di varia estrazione sociale che, in modo assolutamente autonomo e spontaneo, si impegnavano a fiancheggiare i neonati musei, fornendo aiuto e sostegno, e donando spesso anche opere di loro proprietà che andavano ad arricchire le collezioni pubbliche.
Importante fu l’interessamento di alcuni industriali che anche in Italia, seppure con un certo ritardo rispetto agli altri Paesi d’Europa si stavano affermando con le loro imprese, e non dimenticavano l’antico contesto estetico-culturale che per secoli aveva caratterizzato il nostro Paese.

Solo a metà del Novecento si concretizzano vere e proprie forme di associazione tra i simpatizzanti di questo o quel museo. Nascono così le Associazioni Amici dei Musei, forse ispirandosi anche alle numerose e dinamiche Società e Accademie Filarmoniche che caratterizzano da due secoli la vita musicale italiana. Sono belle realtà che hanno come scopo principale quello di mantenere vivo nella cittadinanza l’amore per l’arte e per la cultura a tutto tondo , con particolare interesse per la vita e l’attività delle strutture museali per le quali si sono costituite in Associazione.

Nel caso di Verona, la denominazione di Associazione Amici dei Musei Civici è tale in quanto fa riferimento al gruppo di musei di proprietà comunale che ha come capolista il Museo di Arte Antica di Castelvecchio, affiancato dal Museo archeologico, dal Museo degli Affreschi, dal Lapidario Maffeiano. Scorrendo gli statuti che regolano l’esistenza e l’attività delle Associazioni Amici dei Musei si evince che le finalità indicate sono molteplici, ed auspicano una serie di iniziative, anche piccole, che possono portare alla valorizzazione finale del patrimonio intellettuale e reale dei musei “adottati”. L’Amico dei Musei è una figura di alto livello morale e civico che può prestare la propria disponibilità e abilità partecipando alla vita del museo con una attività di collaborazione. È il caso ad esempio della partecipazione alle guardianie nelle sale d’esposizione quando c’è carenza di personale a ciò preposto, o dell’aiuto di uno o più soci nella gestione del Sito informatico. Ma l’Amico dei Musei può, anzi, deve in ragione delle sue capacità supportare i dirigenti del museo nelle ricerche o negli studi in corso con una efficace azione di sussidiarietà.

Ognuno poi dovrebbe aderire volontariamente ad una forma moderna di mecenatismo, singolo o collettivo, tendente ad integrare le risorse ufficiali delle strutture museali che, essendo di natura pubblica, possono non sempre essere certe nel tempo e risultare a volte sufficienti solo per l’indispensabile spesa corrente. Analizzando il piacere segreto e personale che può scaturire dall’aiuto concreto dato per una azione nobile come quella di “fare qualcosa per un museo “, il gesto può risultare molto appagante e consolatorio. Un settore molto importante di attività degli Amici è l’ “allevamento” dei giovani all’amore per l’arte. Qui va subito riconosciuto che gli Amici di Verona brillano di luce propria, avendo ideato e sviluppato un Gruppo Giovani preparato, efficiente ed entusiasta che a sua volta è divenuto un focus catalizzatore verso altri giovani ancora digiuni di questa opportunità e promotori di un allargamento del Gruppo giovani a  livello internazionale.

Il Gruppo Giovani è un esempio per quelle strutture pubbliche che si dedicano all’istruzione e che dovrebbero maggiormente interessarsi a questo particolare settore dell’apprendimento. I bambini, che sono naturalmente portati ad incuriosirsi della bellezza e magari cercano anche di riprodurla con buffi, ma significativi disegni, vanno incoraggiati ed aiutati prima che altre attenzioni li distraggano, trasportandoli nel regno della banalità e della noia. Queste sono le Associazioni Amici dei Musei di oggi. E domani?

Di certo saranno sempre in maggior numero perché l’interesse per il mondo museale è in fase crescente. Ma alcuni problemi che preoccupano oggi non spariranno, anzi potranno acuirsi ulteriormente. Mi riferisco in particolar modo alla opportunità che alcuni Amici possano offrire una partecipazione più attiva e concreta alla vita della Associazione, non limitandosi all’iscrizione annua e ad un troppo limitato coinvolgimento nella vita associativa. Più passa il tempo e più le Amministrazioni pubbliche saranno oberate da nuovi compiti istituzionali di varia natura: l’opera di sussidiarietà offerta da strutture come quelle degli Amici dei Musei risulterà perciò preziosa ed indispensabile. Ho ottime ragioni per augurarmi che l’Amministrazione Civica di Verona abbia anche in futuro quelle giuste attenzioniper tutto ciò che ha contribuito a collocare Verona fra le “città d’arte” italiane di prima grandezza.

Ma non dobbiamo dimenticare che se già oggi accanto alla “città d’arte“ Verona coesiste una Verona dedita a commerci internazionali di primaria importanza, fra pochi anni, con l’entrata in esercizio della galleria ferroviaria di base del Brennero (55 chilometri sotto terra tra Bressanone e Innsbruck) in avanzata fase di costruzione, la riduzione drastica dei tempi di trasporto delle merci dal Centro Europa a Verona, per poi essere smistate nel resto d’Italia e viceversa, potrebbe mettere “in sonno” la città d’arte, a tutto vantaggio di una grande e anonima città del commercio che potrebbe prendere il sopravvento su quanto di nobile e bello ha caratterizzato finora questa città. Proprio per questi possibili pericoli sarà opportuno, direi necessario, che le generazioni future non si trovino impreparate nella gestione del “bello“ di Verona. Del resto l’esempio di alcune città centro-nord europee già oggi campioni mondiali nei commerci terrestri e marittimi, e nel contempo poli attrattivi museali ed artistici di primaria importanza, fanno ben sperare per il futuro di Verona.

Comunque vadano le cose gli Amici dei Musei avranno sempre una funzione primaria; e a molti soci avanti negli anni, che giustificano la minor partecipazione alle attività sociali per quel senso di torpore rinunciatario che li attanaglia, ricordo loro un bellissimo scritto di Francesco Alberoni: La terza via tra il dovere e il piacere. L’illustre sociologo analizzando l’approccio di ciascuno di noi nei riguardi dello svago e del lavoro suddivide gli adulti in tre “tipi umani“ così sintetizzati: il primo tipo contempla coloro che considerano il lavoro una dura realtà e cercano in tutti i modi di godere del tempo libero e dello svago. Il secondo è appannaggio del tipo impegnato: tutto è dovere, moltissimo lavoro e niente svaghi. Il terzo tipo ha come obiettivo l’imparare sempre di più per fare sempre meglio; legge, studia; ogni esperienza è un mezzo per migliorare la conoscenza. Di fronte all’insuccesso si domanda: “Cosa posso imparare da questa lezione?” Ascolta, riflette per crescere e progettare nuove attività.

Gli Amici dei Musei appartengono o dovrebbero appartenere al terzo tipo umano; ed anche ad ottanta o più anni dovrebbero concepire l’appartenenza alla Associazione degli Amici dei Musei come una preziosa opportunità per arricchirsi culturalmente e vivere meglio.

 

Giuseppe Perotti


Il restauro dopo il furto

Venerdì 22 settembre, alle ore 17.00, al Museo di Castelvecchio sarà presentato il restauro delle opere rubate nell’inverno del 2015, che finalmente torneranno nelle loro collocazioni originarie. Sarà l’occasione per fare il punto, assieme ai professionisti che se ne sono occupati di persona, sugli interventi di conservazione, ma anche sulla dinamica del furto, sulle indagini e sulla complessa vicenda del rientro in Italia dei diciassette dipinti.

Anche in quest’occasione, gli Amici dei Musei Civici e il Gruppo Giovani, che hanno affiancato e sostenuto il Museo di Castelvecchio nel corso degli eventi, saranno presenti, e offriranno un brindisi ai partecipanti al termine dell’incontro. Naturalmente, siete tutti invitati a partecipare!

Nei due giorni successivi, in concomitanza con le Giornate Europee del Patrimonio, sarà possibile visitare il Museo di Castelvecchio a un prezzo scontato: 1 euro per i residenti nella provincia di Verona, 4,50 euro per tutti gli altri visitatori.

 

Sabato 23, alle ore 10.30, l’Assessore alla Cultura Francesca Briani introdurrà l’iniziativa, che consentirà ai visitatori di incontrare, nel corso della visita al museo, i restauratori, gli studenti dell’Accademia di Belle Arti, il personale del Museo e della Soprintendenza per conoscere tutti i dettagli dei restauri eseguiti.


La sublime armonia del continuo colloquio tra parola e visione per capire e apprezzare un’opera d’arte

Dopo la pausa estiva, riprendiamo le attività sul sito con un articolo del nostro socio Giuseppe Perotti, che con le sue riflessioni anima e arricchisce queste pagine e al quale va, per questo, la riconoscenza di tutti gli Amici.

Sin quando non comparvero a metà Ottocento le prime riproduzioni fotografiche, il sistema universalmente utilizzato per conoscere ed apprezzare le opere d’arte visive, tranne per i pochi fortunati turisti d’élite, era quello di ascoltare o leggere la parola dei critici che avevano potuto ammirarle e studiarle de visu; magari integrandole con disegni o acqueforti che le riproducevano più o meno fedelmente.

Oggi, in un mondo cablato e connesso, con la possibilità di “vedere” e vivere in tempo reale ciò che sta capitando in ogni angolo del pianeta, e spesso anche in altri corpi celesti, può sembrare imperfetta e anacronistica la conoscenza di un’opera d’arte attraverso il solo uso della parola.

Non è così: il fascino della parola non segue le mode del tempo, ma ha un valore assoluto.

L’ottima riproduzione digitale, oggi ottenibile con relativa facilità, favorisce enormemente la diffusione del sapere artistico a prezzi molto contenuti ; ma resta sempre una bella e muta immagine se non viene integrata da un commento che faciliti il lettore nella scoperta ed nella conferma del come e del perché un artista abbia ideato una certa opera.

Anni fa, sul far della sera al Caffè della Versiliana, uno spazio all’aperto tra lecci e pini a Marina di Pietrasanta, Vittorio Sgarbi stava parlando dell’Arte Italiana nella fase di transizione tra il Manierismo cinquecentesco e il Barocco. Inevitabilmente il discorso cadde su Caravaggio, e in assenza di proiezioni su schermo, Vittorio Sgarbi, con il solo ausilio della parola, descrisse e commentò una delle tre opere che Michelangelo Merisi dipinse per la cappella del cardinal Matteo Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi in Roma: il celeberrimo “Martirio di San Matteo”.

Il pubblico, un misto di vecchi signori in vacanza e una non trascurabile fetta di curiosi locali, probabilmente attratti dalla notorietà televisiva del conferenziere, per una decina di minuti ascoltò trattenendo il fiato Vittorio Sgarbi. Il critico, attraverso un perfetto uso della lingua italiana, con tutte le possibili sfumature del lessico e la ricchezza dei vocaboli, ma mai facendo sfoggio di termini tecnici, difficilmente comprensibili, rileggeva mentalmente il celebre dipinto, mettendo in risalto sia la complessità stilistica del quadro e la lettura “teologica” dei molti personaggi ritratti, sia il meraviglioso risultato artistico dell’opera che, pur avendo ancora alcuni richiami manieristici, è già rivolta all’incipiente Barocco, attraverso le potenti figure realistiche che hanno fatto dire ai critici del Novecento: dopo Caravaggio nulla fu più come prima.

Quando Vittorio Sgarbi terminò il meraviglioso monologo, un fragoroso battimani, non certo frequente nell’allora sonnacchioso Caffè, confermò come la parola, quando è appropriata e convincente, può valere cento immagini, anche in 3D.

Ma non sempre il contrappunto tra visione e parola vede quest’ultima come mezzo di perfezionamento e rifinitura nella definizione di bello in ogni espressione artistica.

Può anche succedere il contrario. Anzi credo di aver io stesso sperimentato un fatto simile.

Come per tutti gli studenti liceali, dopo i grandi della letteratura italiana dell’epoca d’oro medioevale, affrontai il romanzo cavalleresco cinquecentesco, che vede nell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto l’opera di maggior rilievo.

Non fu un bell’approccio, forse per la mia scarsa volontà di apprezzare il linguaggio aulico ed erudito del Cinquecento, decisamente troppo lontano dal nostro idioma.

Rimase solo uno sbiadito ricordo.

Ma in una calda sera d’estate del 1969, essendo solo in città, decisi di andare nei pressi della Basilica di San Zeno Maggiore, dove l’allora giovane e poco noto regista teatrale Luca Ronconi, aveva allestito una rappresentazione scenica tratta dall’Orlando Furioso. In uno spazio quadrangolare, ricavato sul sagrato della stessa basilica, noi spettatori, tutti rigorosamente in piedi, ci aggiravamo tra curiose macchine sceniche, mentre un imponente e minaccioso Ippogrifo stava appollaiato su una sporgenza a metà parete della torre Abbaziale.

Ad un tratto dagli angoli meno illuminati del piazzale emersero alcuni attori, allora giovani e sconosciuti, ma che avrebbero poi percorso lunghe e luminose carriere, ed iniziarono a recitare brani tratti dal celebre romanzo cavalleresco ariosteo.
La suggestione fu grande ed anche noi spettatori restammo coinvolti dalla eccezionale performance recitata in un ambiente completamente diverso dal tradizionale palcoscenico.
In un certo senso ci sentivamo coinvolti e parte integrante, anche se non recitante, dell’evento: da spettatori eravamo stati promossi al livello di comparse teatrali. E non era certo poco!

Quella eccezionale recita mi permise però di penetrare e capire quel mondo favoloso e leggendario che permea tutto il poema, e che una annoiata e distratta lettura scolastica non mi aveva rivelato.

Capii come la conquista dell’impossibile attraverso utopiche e velleitarie imprese da parte dei leggendari personaggi ideati dall’Ariosto abbia potuto non solo ammaliare i letterati del Cinquecento, ma infiammare larghi strati di nuovi lettori che, grazie alla rapida diffusione della stampa, poterono aver accesso a qualche cosa che fino ad allora era stato loro negato. A distanza di quasi cinquant’anni da quella memorabile serata ho ancor ben viva nella memoria una Angelica a non più di tre metri da me, sulla sinistra, che proclamava il suo amore per Medoro, (o era un altro personaggio?), mentre il terribile Ippogrifo, staccatosi dalla parete della torre Abbaziale era letteralmente planato sulle nostre teste. Situazione pericolosa , spettatori compresi, ma un corazzatissimo Astolfo, sbucato dal nulla alla nostra destra ingaggiò un furioso duello con il mostro mitologico, mettendolo fuori combattimento.

Che spettacolo!

Molto più recentemente un piacevolissimo aiuto, squisitamente visivo, per comprendere appieno Ludovico Ariosto, il suo tempo ed il suo indiscusso capolavoro, ci è stato offerto dalla meravigliosa mostra tenutasi nell’autunno del 2016 al Palazzo dei Diamanti in Ferrara e che aveva per titolo: Orlando furioso 500 anni.

Una mostra fondamentale per due ordini di fattori. Primo: per aver portato in un luogo bello e prestigioso come il Palazzo dei Diamanti una serie di dipinti, sculture, strumenti musicali, libri, arazzi, armi, gioielli e altro ancora, tra i più belli e appaganti del Cinquecento italiano, provenienti da musei e collezioni di ogni parte del mondo. In secondo luogo perché tutti i capolavori esposti avevano un preciso richiamo al mondo e alle immagini alle quali Ludovico Ariosto aveva tratto ispirazione nel comporre l’Orlando Furioso.

Una mostra che ha riscontrato un grandissimo successo di pubblico e di critica, proprio perché il visitatore, oltre ad ammirare capolavori assoluti ( erano in mostra opere di Pisanello, Mantenga, Tiziano, Raffaello,Botticelli, Sebastiano del Piombo , e… mi fermo qui), è stato idealmente proiettato in un favoloso ed immaginario mondo che purtroppo era allora, ed è anche oggi, pura fantasia. Ma una fantasia meravigliosa.

Mai come in questa manifestazione artistica è stata raggiunta una perfetta sintesi per celebrare il continuo colloquio tra parola e visione nell’esaltazione del bello assoluto.

Giuseppe Perotti


Un anno sul Canal Grande. Intervista a Paola Marini

È trascorso ormai più di un anno da quando è iniziata l’avventura di Paola Marini sulle rive del Canal Grande.

Un’avventura nata dalla sfida lanciata dal Ministero dei Beni Culturali che ha sviluppato e concretizzato un programma di adeguamento strutturale ed organizzativo per venti dei più importanti e prestigiosi musei e realtà culturali statali italiani.
Un programma a dir poco rivoluzionario che ha modificato lo stesso concetto filosofico di museo statale, finora ancorato a ferrei principi di tutela e conservazione delle opere d’arte, adeguandosi alle esigenze che anche un moderno turismo culturale di buon livello richiede.

Paola Marini, la nostra storica direttrice delle Civiche Raccolte d’Arte di Verona, è stata chiamata a dirigere, in un quadro normativo del tutto nuovo, le Gallerie dell’Accademia di Venezia, il museo statale italiano che viene universalmente identificato come il massimo centro mondiale per ammirare e studiare la pittura del ‘500 veneziano; e non solo quella.

Comodamente seduti in una piccola saletta delle Gallerie, Paola mi confida l’impressione del suo primo impatto nella nuova prestigiosa direzione.

Profondamente rinnovate da importanti lavori di restauro durante l’ultimo quindicennio, e non ancora del tutto completati, le Gallerie dell’Accademia colpiscono per la grandiosità degli spazi espositivi, con ampi saloni e fughe di luminose gallerie.
Al confronto il nostro caro Museo di Castelvecchio appare come una struttura bellissima, ma a carattere più intimistico, quasi famigliare.

Nelle Gallerie dell’Accademia il respiro è decisamente internazionale: vuoi per la tipologia dei visitatori, assolutamente cosmopolita; vuoi per il continuo colloquio che i direttori, di oggi e di ieri, hanno sempre intrattenuto con i colleghi dei musei di tutto il mondo per organizzare manifestazioni in comune, scambi di opere, approfondimenti culturali e comunque sviluppare quei rapporti di operosa amicizia che solo l’amore per l’alta cultura può realizzare.

Tra i grandi musei italiani le Gallerie dell’Accademia presentano la caratteristica di essere una raccolta quasi monografica. Infatti il museo non nasce come raccolta dei lasciti di grandi famiglie, e di conseguenza di opere che spaziano nel tempo.
La collezione si presenta come una galleria di risulta sia delle spogliazioni napoleoniche, sia delle soppressioni sempre operate da Napoleone, ma anche dall’Italia.

Il risultato è una concentrazione di meravigliosi capolavori della pittura veneziana dal XIV al XVIII secolo, con particolare spazio per il Quattrocento e il Cinquecento.
Quel magico periodo in cui Bellini, Tiziano, Tintoretto, Giorgione, Veronese suscitano con il trionfo del colore, della luce, della naturalezza e del ritratto un vero piacere visivo ed intellettuale.

Qui a Venezia la bellezza e la gioiosità delle tele cinquecentesche ammaliano con i loro splendidi colori luminosi i visitatori di tutto il mondo.

L'organizzazione del Museo

Fino alla recente riforma ministeriale anche le Gallerie dell’Accademia, pur riscuotendo successo di pubblico e sviluppando una notevole attività scientifica, hanno sofferto dei tipici inconvenienti delle strutture statali italiane, soggette a rigidi schemi gerarchici.
Sono transitati direttori di grande valore scientifico, ma per la eccessiva brevità del tempo trascorso alla direzione veneziana, non hanno potuto sviluppare al meglio azioni organiche.

Con la riforma del Ministero vari musei statali italiani sono stati resi autonomi dalle Sovrintendenze, e la figura del Direttore è andata assumendo un ruolo del tutto nuovo.
Oltre al valore della preparazione scientifica, che ha sempre contraddistinto il personale direttivo dei musei italiani, ai nuovi direttori è stata richiesta una maggior capacità “imprenditoriale” e gestionale, avendo il ministro fornito loro nuovi strumenti che li avvicinano più a dirigenti di azienda piuttosto che ad alti burocrati ministeriali ai quali, loro malgrado, erano finora costretti ad identificarsi per alcune attività di servizio.

Le Gallerie dell’Accademia, prosegue Paola Marini, come per gli altri diciannove siti scelti per il nuovo corso gestionale, dovranno nell’esercizio delle loro funzioni avvalersi di uffici e reparti tecnici autonomi.
Ma la sfida a Venezia diventa ancor più difficile, e nel contempo stimolante, perché le varie strutture delle Gallerie non hanno ancora una sufficiente copertura di personale specialistico.
Mancano ad esempio ancora tre dei sei storici dell’arte previsti dalla pianta organica.

Tutto questo ha comportato un primo anno di direzione complesso e a volte imprevedibile, ma certamente molto suggestivo: un vero e proprio battesimo del fuoco.

 

Tra le varie aree funzionali delle Gallerie spiccano:

  • Le Collezioni e la Gestione del Patrimonio; e fra l’altro comprendono le istruttorie per i prestiti, con le complesse e molto delicate pratiche che li regolano e li garantiscono.
  • L’Amministrazione; un settore prevedibile in qualsiasi gestione, ma grande novità per una sede museale che, uscita dal controllo e dalla vigilanza della Sovrintendenza, ha per la prima volta una sua autonomia di bilancio e quindi obbligo di gestione oculata e precisa.
  • L’Area di Servizio Pubblico; anche se le Gallerie debbono ancora rispettare alcuni vincoli statali in questo campo, il museo non si sente più come una realtà periferica di un ministero romano, ma sta assumendo anche in questo fondamentale settore una dinamica ed una autonomia che lo porteranno ad essere simile ad una moderna impresa.
  • Il Settore della Ricerca; le Gallerie in collaborazione con Università ed Istituti di ricerca sviluppa in continuazione approfondimenti e studi comparati sulle opere sue e di altri musei, per contribuire alla soluzione degli interrogativi che sono la ragion d’essere di una scienza al servizio di una miglior conoscenza: la Storia dell’Arte.

Presso le Gallerie opera un Laboratorio del Restauro molto conosciuto ed apprezzato per il valore dei suoi tecnici, laboratorio che ebbe il battesimo del fuoco dopo la grande alluvione del novembre 1966 che fece grandi danni in una Venezia sommersa per molte ore dal mare.

Organi dirigenziali delle Gallerie dell’Accademia sono:

  • Direttore, di nomina ministeriale
  • Consiglio d’Amministrazione, formato da cinque membri tra cui il Direttore che lo presiede ed il Direttore del Polo Museale regionale. Quest’ultima figura, di recente ideazione, diventa il polo aggregatore a livello regionale di tutti i musei, anche quelli non statali.
  • Collegio dei Revisori dei Conti.
  • Comitato Scientifico. Assume particolare importanza l’attivazione recente di questo importante organo (che annovera tra i suoi membri anche il notissimo studioso di storia dell’arte Vittorio Sgarbi), perché con i suoi approfondimenti ed i suoi consigli rafforza l’autorevolezza delle decisioni del direttore, creando insieme a questi una task force culturale che non farà certo rimpiangere le strutture un po’ troppo protocollari del passato.

 

Ringrazio Paola Marini per questa esauriente disamina sulla nuova impostazione delle Gallerie dell’Accademia e le chiedo quale sia dopo un anno di attività il suo feeling con Venezia.

Paola risale come origine recente del tutto alla lontanissima data del novembre 1966, quando la cultura mondiale si strinse a Venezia per soccorrerla, creando ben ventidue Comitati internazionali per Venezia, veri e propri ambasciatori della cultura nel mondo.
Molti di questi sono ancora generosamente attivi, e alcuni operano a fianco delle Gallerie.

Le conoscenze personali che Paola già aveva con direttori italiani e stranieri che operano in Venezia hanno enormemente facilitato l’allargamento delle conoscenze con altri responsabili di Centri di Cultura nazionali e mondiali. Un feeling a tutto tondo.
Inoltre sono molto stretti i rapporti con l’Università di Cà Foscari, che tra l’altro ha agevolato con studi e nuove elaborazioni scientifiche lo sviluppo del nuovo Piano di gestione quadriennale richiesto dal Ministero dei beni culturali, quello appunto che ha nominato i venti nuovi direttori di musei, orientando la rivoluzione tuttora in atto.

Paola infine mi ricorda che l’incantevole presenza presso le Gallerie dell’Accademia di opere tra le più celebri e conosciute genera richieste di prestiti da Musei, Gallerie e Fondazioni di tutto il mondo.
Prestiti che si cercherà di trasformare in più vantaggiosi interscambi, per accrescere le reciproche conoscenze grazie allo studio di questi straordinari capolavori del passato.

La collaborazione con gli importanti e celebri Musei civici veneziani è molto intensa, e proprio ora stanno allestendo insieme una Mostra su “Hyeronimus Bosch ed il collezionismo della famiglia Grimani” a Palazzo Ducale; inoltre sempre i due poli museali veneziani, statale e civico, stanno già lavorando per una epocale Mostra sul Tintoretto per il 2018, con doppia sede espositiva a Palazzo Ducale e alle Gallerie della Accademia. Mostra che a chiusura dei battenti sarà trasferita per una sua ulteriore esposizione alla National Gallery di Washington.

Altre ventidue opere sono in mostra a Denver in Colorado, affiancando altri dipinti del Rinascimento, provenienti da vari musei e collezionisti statunitensi
Ma dalle Gallerie dell’Accademia sono partite ben cinquantatré opere per due mostre in Giappone, a Tokio e Osaka; quest’ultima appena conclusa , con un buon successo di un pubblico molto competente ed attento.
Non ultimo in ordine di tempo il prestito di alcune opere alla Cina, che le ha esposte a Pechino.

È una intensa attività volta a sensibilizzare Paesi lontani d’Oriente alla conoscenza dell’arte italiana, invogliandoli a riallacciare con Venezia quegli scambi culturali che caratterizzarono per molti secoli i rapporti tra i due Mondi.
L’innegabile risveglio culturale che sta coinvolgendo anche il nostro Paese trova nel mondo produttivo e commerciale un attento testimone.
Grandissime aziende, ma anche chi non ti aspetti, come ad esempio Borsa di Milano, seguono con attenzione il mutato interesse degli italiani per tutto ciò che concerne l’alta cultura e le grandi opere d’arte.

Paola Marini vede positivamente questi nuovi segnali, e si augura che una volta entrato a regime il nuovo corso della gestione museale, con personale e mezzi adeguati, ci sia la reale possibilità di ascoltare e vagliare queste proposte, e indirizzarle in maniera intelligente ad un loro soddisfacimento, dando così da un lato una nuova e originale visibilità ai finanziatori, e permettendo ai Musei nuove iniziative culturali che per ora sono conservate nel libro dei sogni.

E come chicca finale l’instancabile Paola Marini mi ricorda che, nel 2017, cadrà il duecentesimo anno dall’apertura delle Gallerie dell’Accademia, e che tale ricorrenza andrà degnamente ricordata.

Ma non basta. Nel 2019 sarà celebrato in tutto il mondo il V centenario della morte di Leonardo da Vinci, del quale le Gallerie dell’Accademia custodiscono ben venticinque disegni, fra cui il più famoso di tutti: il celebre Uomo Vitruviano. Quel disegno che al di là della perfezione e della bellezza stilistica, aprì il mondo di allora allo studio ed alla ricerca scientifica.

Che cosa ha in mente Paola per celebrare quell’anniversario?
Certamente qualche cosa di molto bello, degno delle Gallerie dell’Accademia e di Venezia tutta.

 

Giuseppe Perotti


Un Museo diffuso. Le Pievi romaniche sul tratto appenninico della Via Francigena (II parte)

Seconda e ultima puntata del viaggio del nostro socio Giuseppe Perotti alla scoperta delle pievi romaniche lungo la via Francigena.

La prima parte dell’articolo è disponibile qui.

Riprendo l’auto e risalgo la stretta, ma molto panoramica val Baganza e raggiungo all’incrocio con la statale della Cisa la località di Berceto.

Berceto è un borgo antichissimo, fondato dal re longobardo Liutprando in seguito ad un miracolo accaduto nel 718 d.C. a San Moderanno, un vescovo pellegrino che si fermò in quel luogo mentre raggiungeva dalla sua nativa Francia la capitale della Cristianità.
Nei secoli successivi, data l’importanza strategica del luogo, passaggio obbligato tra Pianura Padana e costa Tirrenica, Berceto fu sede di molti scontri militari e devastazioni, passando sotto la protezione e la giurisdizione dei vari potentati del tempo.
Il Duomo, ovviamente dedicato a san Moderanno, è stato progettato e costruito nel XII secolo, anche se molte delle strutture che ammiriamo oggi sono state in parte aggiunte nei secoli successivi, mantenendo però un’armonia formale convincente. È certo che il bellissimo portale principale e quello laterale sul fianco sinistro sono gli originali del XII secolo.

 

Come per le altre pievi già visitate, anche questo duomo nasce su precedenti strutture longobarde; sappiamo anzi che già nel 719 d.C. Liutprando volle far costruire sul luogo del miracolo una chiesa con annesso monastero, di cui però non ci è rimasta alcuna traccia.

I visitatori, e fortunatamente durante la mia visita erano in numero incoraggiante, vengono colpiti dalle severe, ma armoniche proporzioni della facciata in pietra scura, ingigantite dall’angusta piazza triangolare che funge da sagrato e da punto di osservazione.
Sul portale una lunetta con una scena della Crocifissione in pietra locale, potentissima nelle fattezze arcaiche delle figure rappresentate. Una visione che non può non farci ipotizzare una visita in questi luoghi di scultori moderni, ma con lo sguardo rivolto a tempi lontani; penso ad esempio ad un Arturo Martini….

Ma è l’interno, a tre navate su croce latina, che provoca una suggestione ancora maggiore, esaltata nelle ore tardo- pomeridiane, quando dalle sottili e oblunghe finestre penetrano sciabolate di calda luce del tramonto che vivificano tutta la complessa e molto ben equilibrata architettura.
La concretezza dei conci di pietra rimarca il  preciso ed arioso disegno, che pur realizzato in epoche diverse, si accorda nel migliore dei modi con gli stili adottati: dal romanico di base, agli archi  gotici  delle grandi volte delle tre navate, che presentano alla chiave un angolo appena accennato, fino a certe raffinate decorazioni ed arricchimenti di epoca rinascimentali.
Ma uniformandomi ai pellegrini romei che, pur non avendo fretta, dovevano comunque raggiungere la ancor lontana Roma, lascio anch’io il Duomo di Berceto e riprendo il cammino; metaforicamente, perché in effetti io mi sposto in auto.

Raggiunto il non lontano passo della Cisa, punto di valico dell’Appennino, scendo per una strada moderna che non ricalca più la Via Francigena, ma che la interseca in più punti, come indicato da alcuni cartelli segnalatori turistici, e raggiungo sul fondovalle la città di Pontremoli.

Pontremoli, una piccola e assai vivace cittadina ha una storia che va dall’anno 4000 a.C. (sic!) con le ritrovate e misteriose “Statue- steli”, ad oggi, sede di un premio letterario ed altre vivacità culturali.
Sicuramente importante “mansio” della Via Francigena viene addirittura indicata e descritta nel 990 d.C. da Sigerico, arcivescovo di Canterbury, nel diario che compilò durante il suo ritorno in patria da Roma.
Ma di questa città, oggi toscana, ma che parla emiliano e ragiona in ligure, vorrei dilungarmi in una prossima narrazione, tali e tanti sono i suoi agganci con le arti e la cultura.
Poco oltre l’abitato di Pontremoli, sulla statale per Sarzana, in un tratto di fondovalle del Magra curiosamente piatto come un tavolo da bigliardo, compare all’improvviso sulla sinistra della strada la stupenda Pieve di Santo Stefano o Pieve di Sorano.

In questo sorprendente sito c’è addirittura profumo di preistoria!

Qui infatti sono state recentemente ritrovate, durante i lavori di restauro della Pieve alcune “Statue- stele” lunigianesi, non ancora ben studiate, ma databili tra il 3° e 4° millennio a.C.; e per non esser da meno, sono stati ritrovati anche i reperti archeologici di una antica fattoria-albergo romana, un agriturismo ante litteram, che operò per almeno i primi tre secoli dell’Era Cristiana.
Citata dall’arcivescovo Sigerico, quando annota sul suo diario la sosta nell’attuale Pontremoli, la pieve era già dunque presente nel X secolo. Nei secoli successivi la piana alluvionale ove sorge la chiesa fu più volte allagata dal Magra, per cui la zona venne abbandonata dalla popolazione, ma nella pieve non cessarono mai le celebrazioni delle funzioni religiose.

Un recente radicale restauro ha riportato la struttura alla sua bellezza originale: poche o nessuna decorazione di abbellimento, ma un sicuro e mirabile equilibrio architettonico, fatto di semplici conci di pietra raccolti nel vicino fiume, che hanno creato una struttura a tre navate, con tre absidi: una grande centrale e due laterali in linea con le due piccole navate.
Pilastri circolari di nuda pietra, con capitelli lisci, ma non privi di una indubbia e severa eleganza. Un semplice, ma lineare campanile completa l’insieme di sicura qualità stilistica, tipica del romanico più arcaico.

Certamente quando i romei, stanchi per la interminabile traversata appenninica scorgevano la bella ed accogliente Pieve di Sorano, elevavano a Dio una preghiera di ringraziamento, ma anche agli “spezapreda” che l’avevano costruita.

 

Giuseppe Perotti


Un Museo diffuso. Le Pievi romaniche sul tratto appenninico della Via Francigena (I parte)

Sembra incredibile, ma ancor oggi è possibile incontrare pellegrini che “a piedi“ percorrono di buon passo la Via Francigena, avendo per unica meta Roma. Si tratta in genere di stranieri: polacchi, tedeschi o irlandesi. Ma i proprietari dei radi bar o trattorie del tratto appenninico ricordano anche di aver ospitato degli scandinavi, e comunque anche italiani.

Sono ovviamente equipaggiati come gli escursionisti contemporanei delle nostre montagne, e non manca mai il bordone, sia pur in alluminio o in fibra di carbonio. Ciò che colpisce di loro è la tranquillità e la determinatezza nell’avanzare con qualunque tempo, avendo una meta ben chiara in testa: la Città Eterna.

 

Che cosa è un “Museo Diffuso“?

Le definizioni sono francamente troppe e spesso divergenti tra loro.

Ma un “Amico dei Musei” non si perde d’animo e con un ragionamento logico identifica il Museo Diffuso come un insieme di opere realizzate dall’uomo, collocate in uno spazio definito e omogeneo, in grado di dare una vera emozione al visitatore e che non siano racchiuse tra le quattro canoniche pareti che contraddistinguono un museo tradizionale.

Con questo semplice concetto sono andato alla ricerca di opere d’arte innalzate quasi un millennio fa dall’uomo, per la maggior parte a me ancora sconosciute e che ritenevo potessero nel loro insieme formare un originale ed raffinato Museo Diffuso.

Mi sto riferendo  alle pievi romaniche che costellano il tratto appenninico della antica Via Francigena, quel leggendario, ma realmente esistito cammino che già nel lontano e tenebroso anno Mille accompagnava i pellegrini d’Oltralpe alla visita delle sacre Basiliche romane.

E ciò già avveniva  tre secoli prima che Bonifacio VIII istituisse l’Anno Santo!

Era un cammino che iniziava a Canterbury nell’odierna Inghilterra e dopo aver by-passato le acque tempestose della Manica con le modeste imbarcazioni di allora, proseguiva  per oltre duemila chilometri in Francia e nell’odierno Cantone svizzero del Vallese, per entrare infine in Italia.

Ben 1015 chilometri si dispiegavano nel nostro Paese, dal passo del Gran San Bernardo giù per la Pianura Padana ( Ivrea, Vercelli, Pavia, Piacenza, Fidenza ), per poi inoltrarsi tra le alture dell’Appennino e superarle al passo della Cisa, chiamato allora la Via di Bardone,  per scendere poi nelle vallate toscane e liguri toccando Pontremoli, Sarzana ed inserendosi infine negli itinerari delle vie consolari romane Aurelia e Cassia laddove erano ancora percorribili, o su nuovi sentieri di fortuna tracciati attorno alle zone disastrate.
Lambendo località come Lucca, San Gimignano, Siena, Radicofani, Bolsena e Viterbo i pellegrini giungevano in vista della grande Basilica costantiniana di San Pietro a Roma.

Un viaggio di grande devozione religiosa, che poteva diventare assai pericoloso per le difficoltà insite nell’accidentato percorso, e anche per  possibili  incontri con pericolosi malviventi, se lungo tutto il tragitto gli Ordini Monastici e i Signori dei luoghi  non avessero provveduto ad arricchire la Via Francigena di posti di ristoro e pernottamento a distanze medie di una giornata di cammino, ricalcando gli schemi delle famose “mansiones e submansiones” romane.
Accanto agli ospizi od ospedali per i romei  sorsero naturalmente delle pievi nello stile romanico di allora, in pietra grezza molto suggestiva, ove i pellegrini potevano rinnovare le preghiere a Dio in attesa del loro grande incontro della vita nelle Basiliche romane.

Nelle zone di pianura è ormai difficile ritrovare tracce della Via Francigena, tali e tanti sono stati gli stravolgimenti  nei secoli dovuti a cause naturali, e soprattutto per mano dell’uomo. Curiosamente il tratto più difficile e impegnativo, i 60 chilometri di montagna tra Fornovo e Pontremoli, è quello che ha conservato maggiori tracce della Via, ancor oggi percorribili a piedi per diversi tratti sul fondo stradale originale di rustico selciato, immersi in boschi di secolari castagni.

Ma soprattutto hanno custodito meravigliose opere architettoniche religiose che arricchivano e glorificavano il faticoso cammino dei pellegrini.
Il mio viaggio di ricerca inizia in effetti quando sono al limite della pianura.

Lasciata l’autostrada e valicato un lunghissimo ponte in mattoni sul fiume Taro, giungo nell’abitato di Fornovo, un insieme di case abbastanza anonime e senza caratteristiche particolari.
Invece di proseguire per l’antica strada della Cisa , lascio l’auto e vado a visitare a piedi il nucleo più antico del paese, nella parte bassa, vicino al fiume.

All’improvviso il reticolo di viuzze lascia spazio ad una piazzetta raccolta sul cui sfondo si erge la chiesa che non ti aspetti e scorgo la bella e larga facciata della Pieve di Santa Maria Assunta. È questa la prima importante testimonianza della Via Francigena che si incontra non appena la pianura lascia il posto alle lievi ondulazione che preannunciano l’Appennino.

Costruita su una precedente struttura di età longobarda, l’attuale chiesa di puro stile Romanico, a tre campate, è datata attorno al XII secolo. La pieve aveva in quel tempo una duplice funzione: luogo di celebrazione delle funzioni religiose e riparo sotto un porticato antistante la chiesa per i pellegrini in transito.
Nel XIII secolo una nuova facciata, l’attuale, inglobò il portico, aumentando gli spazi interni per le funzioni religiose, riservando la funzione di ospizio ad altre antiche costruzioni retrostanti la chiesa. Molto bello il portale con una cornice ad arco a tutto sesto, riccamente decorata in altorilievi e soprattutto i due grandi capitelli tipicamente medioevali con figure di guerrieri e animali fantastici.
Una curiosa caratteristica della facciata e del fianco della pieve è la presenza di grossi frammenti di sculture medioevali inseriti nel muro apparentemente senza un ordine stilistico. Tra queste spicca per originalità una figura umana di pellegrino con le bisacce, il bordone, tipico bastone del romeo con il manico ricurvo e le chiavi con le quali avrebbe dovuto metaforicamente aprire le porte delle basiliche romane. Sono sculture ad altorilievo molto importanti e suggestivi nella loro primitiva drammaticità, attribuibili se non a Benedetto Antelami, sicuramente alla sua scuola.
Probabilmente le sculture provengono da un pulpito interno alla pieve che in età più tarda fu smontato in seguito a restyling della struttura in uno stile più in voga in quel periodo.

Lasciata Fornovo mi avvio per una stretta strada secondaria provinciale che ripercorre la Francigena.
Dopo una dozzina di chilometri, sono ormai nella defilata e poco battuta val Baganza, che corre parallela alla più nota val Taro, su una piccola balza ricoperta da prati scorgo, circondata da una dozzina di vecchie e belle case, la nobile e antichissima Pieve di Santa Maria o Pieve di Bardone. Punto di transito obbligato della Via Francigena, anche questa pieve fu costruita nell’XI secolo su precedente impianto religioso di età longobarda.
Pur essendo stata rimaneggiata più volte nei secoli successivi, ha mantenute intatte le linee romaniche originali. Come per la pieve precedente, anche qui si ritrovano sculture e altorilievi di età romanica, tra cui una bellissima Deposizione dalla Croce, sicuramente frammenti provenienti dall’interno della già visitata pieve di Fornovo, di chiara origine antelamica, che richiama fortemente la Deposizione conservata nel Duomo di Parma. L’attenzione del visitatore viene attirata da una rustica e antichissima costruzione in mattoni vicino all’abside della chiesa: forse l’ ospizio per i romei; ma non ho prove a conferma di ciò.
Quello che sicuramente stupisce, anche da una certa distanza, è invece il campanile. In pietra come la chiesa, non molto alto, ma di pianta con dimensioni generose, è caratterizzato dai sedici finestroni con arco a tutto sesto posti su due livelli che danno luce alla cella campanaria, quasi che, con la facilità con cui il suono delle campane poteva raggiungere al vespro i luoghi più lontani della valle, volesse rassicurare i pellegrini che la meta della tappa giornaliera era ormai prossima.

Uno dei cinquanta abitanti del luogo, vista la mia difficoltà a fotografare dalla stradina prospiciente la facciata la panoramica della Pieve, mi invita a salire su una terrazzetta di casa sua, un po’ più arretrata, e quindi ottima per la ripresa dell’insieme. Grazie!

continua…
(cliccare qui per la seconda parte)


GAUDEAMUS IGITUR

Tutto è bene quel che finisce bene.
Finalmente i diciassette capolavori rubati lo scorso anno sono rientrati a Castelvecchio!

Pare anche che siano in discrete condizioni, visto che nell’arco di tredici mesi hanno subito maltrattamenti e violenze di vario tipo, trasferimenti in condizioni assolutamente precarie e accantonamenti in rifugi umidi e inadatti. Se pensiamo al rischio reale che fossero scomparsi per sempre, o che fossero ritornati in condizioni pietose, dobbiamo doppiamente rallegrarci.

Ciò nondimeno il lieto fine non deve certo risolversi unicamente in un sospiro di sollievo e in una prevedibile processione di curiosi che fino ad ora si sono poco o per nulla interessati al Museo di Castelvecchio, ma che l’eclatante fatto di cronaca ha reso di colpo popolare e molto trendy il visitarlo.

I quadri verranno accuratamente analizzati dai tecnici, amorevolmente rimessi nelle condizioni originali da sapienti restauratori e finalmente ricollocati là dove Carlo Scarpa lo aveva indicato.

Ma non finisce lì.

Il Comune di Verona, proprietario delle opere e gestore del Museo di Castelvecchio dovrà aggiornare e rendere più efficaci i sistemi di custodia, non solo nell’impiantistica che pare sia già piuttosto moderna e affidabile, ma nella gestione sicura e certa del sistema di sicurezza.

Il prossimo anno si rinnoverà il Consiglio Comunale di Verona e verrà eletto un nuovo Sindaco. Sarà opportuno che costui ripristini l’Assessorato alla Cultura del Comune di Verona, una struttura che manca da cinque anni. Verona è una città che brilla ai primi posti in Europa per l’offerta turistica a tutto campo e per la ricchezza del suo patrimonio artistico e paesaggistico, fortunatamente preservato dagli sconsiderati assalti modernistici di alcuni decenni fa.

Auspichiamo un Assessorato che torni a diventare il motore propulsivo e regolatore delle molte attività artistiche ad alto livello che caratterizzano Verona. Sarà l’occasione per far conoscere ai turisti, ma anche ai veronesi, che oltre all’universale Giulietta e al suo balcone, c’è di più, molto di più.

Per la città di Verona la deriva “cheap” che sta ormai condizionando il turismo veneziano di massa, nonostante la dura resistenza che i pochi veneziani di cultura stanno combattendo, non è un  esempio da imitare. E gli Amici dei Musei di Verona che in questi interminabili tredici mesi hanno contribuito non poco a tener sveglia nell’opinione pubblica l’attenzione e la speranza, dovranno ora farsi tangibilmente partecipi del rilancio culturale del Museo di Castelvecchio.

Una concreta e felice partecipazione potrebbe essere quella di immedesimarsi materialmente nelle opere ritrovate, “adottando” da parte di un singolo o di un gruppo di associati una delle diciassette opere rientrate dall’Ucraina e contribuire al costo del suo restauro e del ripristino alle condizioni originali. Ho già inviato la mia personale disponibilità alla Direzione del Museo per il restauro di un certo quadro, ricevendone una gradita accettazione.

Di quale opera pittorica si tratta?

Indovinatelo!

Giuseppe Perotti