La Veneranda Fabbrica del Duomo

Pubblichiamo un omaggio del nostro socio… a Milano, città  in cui  è  nato e a lungo vissuto, e al suo più importante monumento. Invitiamo altri soci a contribuire con loro pensieri e scritti.

Un banco di sabbia con lenti di fango e miliardi di gusci di conchiglie in ottocento milioni e seicento trent’anni si è trasformato nel Duomo di Milano

Dalle Piramidi egiziane in poi, tutte le civiltà hanno voluto lasciare una traccia perenne della loro potenza attraverso l’innalzamento di gigantesche opere architettoniche, alcune delle quali sono giunte fino a noi. Nel bacino del Mediterraneo, dapprima i Greci, poi i Romani, furono costruttori di grandissimo valore, ed ancor oggi possiamo ammirare ciò che rimane di celebri costruzioni sacre e profane che attestano la potenza finanziaria, la capacità tecnica e la disponibilità inesauribile di braccia, più o meno schiavizzate, per realizzare opere imponenti, ma belle, armoniche e soprattutto durature. Sul finire dell’impero romano e nei primi secoli dell’Alto Medioevo le devastanti invasioni barbariche e le lotte fratricide fra grandi e piccoli gruppi armati emergenti nelle località ancora abitate, rallentarono di molto le attività architettoniche, se non per la costruzione di alte torri e fortilizi difensivi. Ma dopo il Mille, con il formarsi oltralpe dei primi abbozzi di organizzazioni politiche unitarie e con la nascente Età Comunale in Italia, riprese il desiderio di costruire cose nuove, parimenti allo sviluppo dei traffici e dei commerci, anche catalizzati dall’avventura delle Crociate. In particolare ogni centro abitato di una certa importanza desiderava onorare il Dio del Cristianesimo, e nel contempo rimarcare la propria rinnovata importanza commerciale e militare attraverso la costruzione di grandi chiese o pievi nello stile Romanico ( o Lombardo o Genovese-Pisano a seconda delle località). Con la loro grande mole e con gli svettanti campanili emergevano dai tetti delle altre costruzioni, quasi sempre di modeste e contenute altezze. Poi dalla Francia e dalla Valle del Reno irruppe il nuovo stile: il Gotico, che nella versione Internazionale esaltava al massimo le linee verticali, con ardite guglie, archi rampanti e contrafforti a sostegno delle altissime pareti delle cattedrali. Il Gotico in Italia, con uno stile Romanico ancora molto diffuso e per il generale utilizzo del cotto al posto della pietra, si addolcì nelle linee e nei virtuosismi architettonici, creando nondimeno degli assoluti capolavori per bellezza ed equilibrio estetico che ancor oggi ammiriamo in moltissime nostre città, nelle Abbazie e nelle solitarie Pievi. Ma nella Milano viscontea del XIV secolo avvenne qualche cosa di molto diverso e straordinario. Già nel 1353 era rovinosamente crollata l’altissima torre campanaria sull’attigua Basilica di Santa Maria Maggiore, la basilica Iemale che, con la vicinissima chiesa di Santa Tecla, la basilica Estiva, occupavano parte dell’area che sarà poi di pertinenza del Duomo. La chiesa venne rapidamente riparata, ma nacque l’idea di sostituire le due chiese con qualcosa di nuovo, unico per dimensioni e ricchezza di marmi e decorazioni. Di chi fu l’idea primigenia? Indubbiamente Gian Galeazzo Visconti, il Conte di Virtù, nonché Vicario Imperiale, nato curiosamente proprio nel 1353, l’anno del crollo del campanile, è nell’anno del Signore 1386 l’assoluto signore di Milano, e pertanto molto intenzionato a glorificare la sua potenza politica dando impulso all’avvio di una ciclopica nuova cattedrale. Essendo arcivescovo di Milano Antonio da Saluzzo, imparentato con il Conte di Virtù, è certo che quest’ultimo abbia elargito i primi finanziamenti e le patenti per dare inizio alla titanica costruzione. In effetti l’idea di una nuova cattedrale è anche di tutta la popolazione milanese, che aderisce entusiasta all’iniziativa, e non solo a parole. Donazioni di ogni tipo giungono alla neonata Fabbrica del Duomo, la struttura (l’impresa diremmo oggi), che per oltre sei secoli ha provveduto sia alla custodia e all’investimento dei denari raccolti, sia alla progettazione della chiesa, al reperimento e al trasporto delle centinaia di migliaia di tonnellate di materiale necessario al cantiere e alla costruzione vera e propria, che si protrasse per quasi cinque secoli, nonché alla continua e assai onerosa e impegnativa manutenzione che non ha soluzione di continuità. Le cronache milanesi di fine Trecento ricordano che oltre ai singoli, si va dal dono di una donnetta della sua pelliccetta logora ai drappi d’oro della Regina di Cipro, tutte le corporazioni cittadine parteciparono con offerte di denaro, di opere e di lavoro gratuito al fine di creare un importante capitale che permettesse il concretizzarsi del desiderio della cittadinanza milanese.

STRATEGIE COSTRUTTIVE

Dopo lunghe ed accesissime discussioni venne stabilito che il Duomo sarebbe stato costruito in stile gotico e vi sono documenti che indicano in Simone da Orsenigo il primo direttore dei lavori; o forse più attendibilmente fu colui che produsse i primi disegni preparatori , con violente dispute tra coloro che volevano affidare la direzione dei lavori a ingegneri tedeschi o francesi, aventi più famigliarità con le architetture gotiche, piuttosto che a tecnici italiani. Ma qui è d’obbligo una comparazione stilistica: il Duomo prende il via nel 1386 e ancora dopo due secoli continua la sua lenta e complessa costruzione, iniziata dall’abside, in stile rigorosamente gotico, perché così era stato stabilito, e così pretendevano i rigidi capomastri francesi e germanici che a tempi alterni si avvicendavano con quelli italiani. Per contro, nel 1396, cioè solo dopo dieci anni, Bernardo da Venezia inizia la celeberrima Certosa presso Pavia, che avrebbe dovuto essere per la gloria eterna la Cappella-Mausoleo dei Visconti. Venne completata in circa un secolo e mezzo (un tempo relativamente breve vista la estrema complessità dell’opera), ma dal punto di vista stilistico risultò una perfetta fusione in chiave lombarda degli stili Gotico e Rinascimentale.

MATERIALI DA COSTRUZIONE E LORO REPERIMENTO

Gian Galeazzo Visconti mise a disposizione della Fabbrica del Duomo una cava di marmo posta sulle alture presso Candoglia nella Bassa Val d’Ossola. Contrariamente alla vulgata, che attribuì a Gian Galeazzo la fama di benefattore a tutto tondo, la Fabbrica del Duomo doveva con denari propri provvedere all’escavazione dei blocchi di marmo e trasportarli fino al cantiere ambrosiano, mentre il Conte di Virtù si riservava di offrire gratuitamente la cava, esentando da qualsiasi gabella i materiali durante il difficile trasporto su fiumi, laghi e canali di sua proprietà. Il marmo di Candoglia è un bellissimo calcare bianco rosato con venature azzurro bluastre. Si è formato circa 800 milioni di anni fa attraverso la metamorfosi di grandi banchi di sabbie chiare, lenti di fanghiglia e conchiglie sottoposte a pressioni e temperature elevatissime per centinaia di milioni di anni. A poco a poco, per spinta tettonica, il banco è risalito in superficie e da circa 200 milioni di anni è a disposizione di chi lo vuole cavare. Dal 1386 ad oggi ne sono state cavate e squadrate in blocchi o lastre almeno 600.000 tonnellate. Si calcola infatti che il Duomo di Milano sia composto da non meno di 300.000 tonnellate di marmo di Candoglia, oltre ad altri marmi preziosi utilizzati per i pavimenti e per altre decorazioni, nonché  100.000 tonnellate di granito di Montorfano impiegato per le fondamenta e lo zoccolo perimetrale. Poiché l’anidride carbonica presente in atmosfera ed altri agenti corrosivi in sospensione aerea attaccano il calcare di Candoglia, ingrigendolo e sfarinandone la superficie, è necessario monitorarlo costantemente, specie per quelle parti esposte agli agenti atmosferici esterni, sostituendo lastre, blocchi, statue e ogni tipo di decorazione lapidea qualora se ne valuti l’opportunità. Si calcola pertanto che attualmente, specie sulla rivestitura esterna del Duomo, non ci sia più alcun blocco originale, essendo stato sostituito da marmo più sano nel tempo. Il Duomo di Milano è un’opera in continuo divenire. Come lo spirito dei milanesi. Ma come hanno fatto questi pesantissimi blocchi di marmo ad arrivare con cronometrica precisione e per cinque lunghi secoli fino al cantiere di Milano? Dalla cava di Candoglia una volta cavato e sbozzato a mano e con il solo uso di scalpelli e di cunei di legno, il blocco scendeva a fondovalle con slitte frenate, mediante piani inclinati (la celebre lizzatura, ancora oggi rievocata ad uso dei turisti nelle cave di Carrara). Raggiungeva il fiume Toce e veniva caricato sulle chiatte che, dapprima sul fiume poi attraverso il lago Maggiore fino a Sesto Calende, si inoltravano lungo il corso inferiore del Ticino e all’altezza di Cascina Castellana (vicino all’attuale aeroporto di Malpensa) entravano nel Naviglio Grande (allora conosciuto come Navigium de Gazano), un canale lungo 50 chilometri scavato tra il 1177 e il 1257 che puntava su Milano. A Milano, giunta la chiatta nei pressi della Basilica di Sant’Eustorgio, a porta Ticinese, per altre vie d’acqua interne “risaliva” per mezzo di chiuse fino al Laghetto, dove oggi c’è via Verziere e piazza Fontana, cioè a meno di duecento metri dal cantiere! Per riconoscere le merci trasportate dalle chiatte esenti da gabelle, venivano contrassegnate dalla scritta A.U.F.O. cioè: “Ad usum fabricae operis. L’espressione “a ufo” è ben presto entrata nel gergo lombardo con un duplice significato: la consuetudine di dare passaggi gratuiti alle persone che dalle località rivierasche del lago, del fiume o del naviglio dovevano recarsi a Milano. Ricordiamo per inciso che ancora sul finire del ‘5oo il cardinal Borromeo utilizzava la stessa via d’acqua quando doveva recarsi dal suo castello di Angera, sul lago Maggiore, a Milano. L’altro significato più popolaresco del detto “a ufo” era ed è ancora oggi riferito all’atto di ottenere furbescamente qualche cosa a titolo gratuito! Immaginiamo la complessità della logistica per rifornire la Fabbrica di marmi in continuazione: erano 120 chilometri di via d’acqua, ed una volta scaricate le imbarcazioni, queste dovevano risalire a Candoglia ( altri 120 chilometri ), trainate controcorrente da cavalli, da bovini o anche da uomini che arrancavano faticosamente sull’alzaia del canale o sulla riva del fiume! Nel frattempo il cantiere avanzava lentamente fra mille difficoltà ed inconvenienti. Nel 1392 in un convegno di “maestri” (gli architetti di allora) quelli tedeschi criticarono aspramente i colleghi italiani per certe soluzioni, da loro ritenute troppo rischiose. Stessa situazione nel 1399 con forti censure da parte del maestro francese Mignot. Ma già ai primi del ‘400 sulla porzione di chiesa già costruita, e cioè, abside, parte del transetto e le prime campate delle cinque navate, viene iniziata la copertura con un originale e mai prima sperimentato tetto, sistemato a falde plurime sovrapposte in marmo. Metodo assai criticato dai goticisti d’oltralpe, ma che ha già sfidato egregiamente sei secoli di vita. Verso il 1415 compaiono le prime lastre dei meravigliosi vetri piombati multicolori. Purtroppo le più belle e antiche vetrate, quelle dei tre grandi finestroni absidali, andarono distrutte all’inizio dell’epopea napoleonica in Italia per pura stoltezza umana. Gli spari a salve delle artiglierie pesanti in onore della festa della Repubblica le infransero, facendole cadere per lo spostamento d’aria. Fra i vari direttori dei lavori del periodo molto fecondo per l’avanzamento dell’opera va ricordato Filippino da Modena che per oltre quarant’anni portò a compimento importanti opere strutturali fondamentali. Nel 1450 mancava ancora la costruzione di sei campate verso la futura facciata, per completare la pianta definitiva del Duomo. Nel 1453 viene demolita la chiesa di Santa Tecla ormai sovrastata dal nascente Duomo, e viene abbattuta per volere di Francesco Sforza la porzione di Arengo che interessava l’area del Duomo. Per capire le difficoltà e le incongruità del tempo va ricordato che ancora a metà ‘400, con le funzioni religiose già celebrate, sia pur a fasi alterne, di primissima mattina i carri degli ortolani per raggiungere il verziere(nei pressi dell’attuale via omonima) attraversavano il cantiere percorrendo.. le attuali navate laterali del Duomo, non essendo ancora stato costruito il sovrastante tiburio! Nel 1487 in piena Era Rinascimentale (nel frattempo prendevano vita a Milano l’Ospedale Maggiore e Santa Maria delle Grazie, capolavori del nuovo stile) iniziava la fase finale della costruzione del tiburio, naturalmente in stile Gotico, sotto la direzione dei grandi Amadeo e Dolcebono. Il tiburio viene completato il 24 settembre 1500 insieme alle quattro bellissime e raffinate grandi guglie, caratterizzate dalle scale a spirale che le avvolgono, di supporto e sostegno al tiburio stesso. Dal 1500 al 1567 grande crisi e fermo lavori per pestilenza, invasioni alemanne e disgrazie varie. Nel 1567 l’architetto Pellegrino dei Pellegrini attua una svolta epocale: abbandona lo stile gotico per passare allo stile rinascimentale. Con Carlo Borromeo cardinale e la Controriforma imperante c’è una maggior libertà stilistica; anzi c’è un caldo invito a progettare nel nuovo stile. Azzardo un’ipotesi: forse il gotico, oltre ad essere uno stile superato, ricordava le molte chiese e cattedrali d’oltralpe passate ai Protestanti. Era nata la nuova linea stilistica che guardava a Roma ed allo stile che vi stava dominando doveva assoggettarsi anche il nascente Duomo di Milano. Dal ‘600 inizia la lunga saga dei progetti per la facciata, già terminata al grezzo di soli mattoni. Un progetto caratterizzato da sei enormi colonne monolitiche in marmo di Candoglia naufraga sul nascere quando il primo monolite si spezza nel tentativo di caricarlo su una grande chiatta. Bernini, interpellato, da dei pareri nel 1651, ma non si sa se vengono messi in pratica. Nel ‘700 si fa poca architettura, ma moltissimi abbellimenti con statue e decorazioni varie. In quel periodo, specie all’interno del Duomo, appaiono le prime opere in stile Barocco. Di quel secolo si possono ricordare le quattro finestre, ancora in stile rinascimentale, sulla facciata. Nel 1765 inizia la costruzione della guglia centrale sotto la direzione di Merlo che termina nel 1769. Nel 1774 arriva a 108 metri di altezza la celebre “Madunina de Milan”, opera del Bini, e dedicata, come tutta la cattedrale, a Santa Maria Nascente. Nel 1806 Napoleone esige il completamento della facciata per la sua incoronazione, e fa redigere in tutta fretta alcuni progetti, per la verità molto modesti. Non se ne fa niente e la facciata come la conosciamo oggi viene completata solo nel 1821, quando per Napoleone il milanese don Lisander pone come incipit alla poesia Cinque maggio l’esclamazione: “Ei fu”. Nel Novecento vengono inaugurate le porte in bronzo in sostituzione dei battenti in legno: la porta centrale è del 1906, mentre le quattro laterali vengono inaugurate tra il 1948 ed il 1965. È rimasto un bozzetto e alcuni particolari di un progetto di Lucio Fontana che avrebbe potuto firmare una delle quattro porte minori, ma fu scartato. Peccato! La Fabbrica del Duomo dopo seicento anni di attività, a volte difficile, a volte frenetica, non ha certo chiuso i battenti con il completamento della cattedrale. La manutenzione di una costruzione così imponente (lunghezza m.158, larghezza m.93, cinque navate alte una cinquantina di metri sostenute da 52 piloni del diametro di m. 3,50 ) esige una continua attività di monitoraggio e di sostituzione di quei blocchi o lastre di marmo di Candoglia che il tempo e l’inquinamento hanno deteriorato. È stato calcolato che il Duomo sia composto di circa 550.000 pezzi di marmo! Ricordo sinteticamente che in Duomo ci sono, oltre alla guglia centrale della Madonnina, altre 134 guglie di varia altezza, 200 altorilievi, centinaia di doccioni e pinnacoli, 3.400 statue di cui 1.100 all’interno e 2.200 all’esterno. La Veneranda Fabbrica del Duomo, il cui Consiglio era composto all’inizio da 105 persone, ma che nel 1395 raggiunsero il numero record di 255 consiglieri, rappresentava fin dalla sua fondazione la più genuina espressione della partecipazione corale di tutta la città di Milano alla costruzione del suo Duomo. Ancor oggi la Fabbrica del Duomo, anche se ovviamente con un numero più ridotto di consiglieri, esprime attraverso la sua attività lo spirito che ebbe fin dalla sua fondazione. Il Duomo è un’opera stilisticamente non purissima, ma che nel complesso sbigottisce ancor oggi il fedele o il semplice turista in visita per la potenza che esprime e non può non far pensare alla immensa fede religiosa che permeò per secoli uomini coraggiosi e determinati. La sistemazione della piazza del Duomo nel 1870 da parte dell’architetto Mengoni non ha certo valorizzato la vista della cattedrale: l’opera si erge ora troppo isolata in una immensa piazza rettangolare formata da architetture eclettiche, monumentali, ma stilisticamente non in armonia . Ben diverso doveva essere lo stato d’animo del visitatore della prima metà dell’Ottocento quando , sbucando dal portico del Figino gli si parava innanzi la mastodontica facciata del Duomo con la fuga di guglie del fianco settentrionale della chiesa. Per fortuna il bravo pittore bresciano Angelo Inganni ci ha lasciato una testimonianza che fa rivivere le sensazioni provate allora. Ma la vista dell’abside del Duomo, la parte architettonica più bella e armonica in assoluto, dal marciapiedi antistante l’Arcivescovado, inquadrando in prospettiva il fianco sud del Duomo, su su fino alla guglia della Madonnina, che pare perdersi nel cielo, è una di quelle immagini che rimangono per sempre impresse nei ricordi del turista o del milanese che semplicemente vi transita per motivi di lavoro. Vorrei concludere con una testimonianza di chi non te lo aspetti. Il presidente degli Stati Uniti Theodore Roosvelt a Milano nel 1887 alla vista del Duomo esclamò: “Mi dà una sensazione che non ho mai avuto altrove, eccetto tra le montagne selvagge o nelle vaste pinete in cui gli alberi sono molto alti e non troppo vicini”

Giuseppe Perotti


La scoperta di un’Italia nascosta

Quando si sente citare la Romagna inevitabilmente il nostro inconscio ci porta alle spiagge di Rimini o al viale Ceccarini di Riccione, con annesse piadina e musica popolare.
I più eruditi possono andare col pensiero all’Amarcord di Federico Fellini o a Leon Battista Alberti e la sua incompiuta opera maltestiana.
Anche la bellissima e molto visitata Ravenna è Romagna; anzi, con Cesena fu una delle sue capitali.
Ma Ravenna è là, acquattata tra acqua e cielo; celata dal velo della sua irripetibile storia millenaria.
Una Romagna che non sembra più Romagna: è Ravenna tout court.
Ma c’è anche un’altra Romagna, ricca di antiche città e borghi accoglienti che gli italiani, con l’utilizzo universale della rete autostradale per gli spostamenti, hanno completamente dimenticato o ignorano del tutto.
Ricordo ancora quando attorno al 1955/60 con la mia famiglia ci sorbivamo 360 chilometri di via Emilia, oltre ad un breve tratto di Adriatica, per raggiungere Pesaro da Milano.
Era un viaggio di sette-otto ore, che ogni mezz’ora circa veniva rallentato dal piacevole attraversamento della quindicina di città emiliane e romagnole che punteggiano la via consolare.
Attraversamento urbano che avveniva naturalmente sul tracciato rettilineo della Via Emilia; quelle stesse strade dei centri storici che oggi sono interdette alle auto, essendo ormai riservate al traffico pedonale e ciclistico. Le circonvallazioni (quando c’erano) erano destinate al traffico pesante.
Ricordo che all’attraversamento di Faenza, mio padre, sempre seduto al mio fianco per meglio godersi il paesaggio, esprimeva la sua meraviglia per i bellissimi e nobili palazzi secenteschi e neoclassici che facevano ala all’antica via consolare.
Giunti all’altezza della Torre dell’Orologio esclamava: “ Qui a Faenza c’è il più importante museo italiano delle ceramiche; una volta ci dovremo fermare e andare a visitarlo”
Ma arrivarono le autostrade e purtroppo quella occasione non venne mai.
Ora finalmente sono riuscito a visitarlo con gli Amici dei Musei, dopo circa sessant’anni.
Ma questa è un’altra storia, anche perché la visita è stata breve, non programmata, ricavata in un ritaglio di tempo tra la visita a Palazzo Milzetti ed il rientro a Verona.
È comunque un Museo strepitoso, ricchissimo di preziose opere italiane e del Mondo; un Museo completamente rinnovato da poco tempo in maniera egregia e razionale.
Una meta alla quale gli Amici dei Musei di Verona non potranno rinunciare, con un viaggio ad hoc.
Vorrei qui sottolineare come in occasione delle visite al mattino al Museo San Domenico di Forlì dove è allestita la bella mostra “Piero della Francesca,indagine su un mito” e al pomeriggio a Palazzo Milzettidi Faenza, sede del “Museo nazionale dell’età neoclassica in Romagna”, la nostra ottima accompagnatrice Anna Chiara Tommasi sia riuscita a ritagliare uno spazio temporale di poco più di un’ora per visitare “a piedi” corso Mazzini di Faenza, cioè il tratto cittadino più nobile dell’antica Via Emilia .
Questa passeggiata è stata la vera chiave di volta per poter cogliere, sia pur fuggevolmente, lo spirito e la cultura del luogo!
Ci siamo subito accorti che la città , di chiara origine consolare romana, ebbe già nel Medioevo una sua nobiltà ed importanza, in quanto i Manfredi, signori locali, favorirono gli scambi culturali non solo con le altre città romagnole ed emiliane, ma anche con la Toscana.
Va tenuto presente che la Toscana, anche con la ripartizione amministrativa oggi vigente, dista, con la città di Marradi, solo trenta chilometri da Faenza; che è del resto la stessa distanza che la separa da Ravenna e quindi dal mare.
Sicuramente la città fu sempre un crocevia di commerci e di culture in ogni epoca storica.
Ma la fortuna commerciale di Faenza è da quasi mille anni incentrata soprattutto sulla produzione delle terrecotte e delle ceramiche.
Dalle grandi cave di terra argillosa della zona nasce la terracotta con la quale ancor oggi vengono prodotti laterizi di forma e fogge diverse per l’edilizia.
Ma l’argilla , attraverso la sua manipolazione in forme e fogge artisticamente elaborate viene dapprima trasformata nel forno in terracotta, poi, opportunamente decorata da artigiani e artisti, viene ricotta e infine vetrificata attraverso vernici a base di sali di stagno che, dopo una ulteriore ricottura, rivestono il manufatto, raggiungendo la consistenza e la trasparenza del vetro: sono le celebri maioliche note in tutto il mondo con il nome di “faiences” dal nome della città che per prima le produsse.
Ecco perché sulla piazza principale della cittadina, piazza della Libertà, spicca una sontuosa Cattedrale rinascimentale, iniziata attorno al 1470 e portata a compimento nelle fattezze attuali attorno al 1510, degna di una città d’arte di ben altre dimensioni!
Se la facciata, di grande valore architettonico, è rimasta incompiuta, l’arioso interno richiama nel disegno morbido e luminoso le opere fiorentine del Brunelleschi.
Per non parlare delle numerose cappelle laterali gentilizie con decorazioni, altari ed arche marmoree di grandissimo valore.
Anche il ‘600 fu un secolo importante per Faenza: ne è testimonianza il gigantesco e severo palazzo Mazzolani, oggi in attesa di un restauro per poter ospitare (quando non si sa) il Museo Archeologico e ed un notevole Galleria d’arte moderna comunale, per ora custodita in altra sede cittadina.
Ma la piacevole scoperta e l’unicità di Faenza tra le città d’arte minori (ma solo per le dimensioni) è nel numero e nella qualità architettonica di palazzi e palazzetti in stile neoclassico che adornano le vie principali, ma anche i vicoletti, del centro storico.
Spicca su tutti il palazzo Milzetti, visitato dagli Amici di Verona, per la bellezza e la completezza degli affreschi e delle decorazioni, oltre agli arredamenti originali dell’epoca, tanto da essere divenuto sede delMuseo nazionale dell’Età Neoclassica in Romagna.
Molti furono gli artisti (architetti, decoratori, ebanisti) che contribuirono a far bella Faenza in età neoclassica.
Fra tutti spiccano gli architetti Giuseppe Pistocchi e Giovanni Antonio Antolini e soprattutto il decoratore Felice Giani che proprio nel palazzo Milzetti creò la summa dei suoi capolavori.
Il Giani, nato nel tortonese, dopo gli studi ed il perfezionamento in diverse Accademie italiane, creò una grande e affollata Bottega, quasi di tipo rinascimentale, che gli permise in quarant’anni di intensa attività di decorare con opere di assoluto valore le facciate, i saloni, i porticati e gli scaloni di numerosissime residenze dell’Emilia e della Romagna.
Oltre a Faenza, sue opere si trovano anche a Bologna, Cesena, Ferrara, Parma e Ravenna.
Lavorò anche in residenze marchigiane, ma sue opere sono presenti anche in prestigiosi palazzi di Roma e di Napoli.
Ha lasciato la sua firma anche a Parigi alla Malmaison e forse anche alle Tuileries, ma di quest’ultimo lavoro non ci sono prove perché la reggia fu abbattuta dalla Comune nel 1871.
In Faenza, oltre al palazzo Milzetti ed al Teatro Comunale Masini, si ammirano una quindicina di palazzi in stile neoclassico ed almeno un’altra decina, costruiti precedentemente, ma decorati nel periodo Neoclassico, sono giunti fino a noi.
Una vivacità costruttiva ed una sensibilità artistica di famiglie, sicuramente ricche di denaro, ma certamente ancor più ricche di cultura e aperte al mutar dei tempi e all’aria nuova che spirava dalla Francia.
Suppongo che molti di costoro fossero anche proprietari di atelier dove venivano prodotte le bellissime faiences che fecero conoscere la loro piccola città in tutto il mondo.
Non posso non pensare a quella nuova borghesia industriale che si stava sviluppando nello stesso periodo e in scala ben più grande in Inghilterra ed in Francia, e, perché no, anche a Milano e in Lombardia.

Giuseppe Perotti


...e dopo il “Te Deum”, si cambi marcia!

Dopo straordinario ritrovamento dei diciassette quadri sottratti al Museo di Castelvecchio la sera del 19 novembre 2015 ha suscitato in tutti gli Amici dei Musei di Verona una grande gioia.
Una liberazione dal senso di cupa oppressione che aveva attanagliato tutti noi.
Il furto, oltre al danno materiale difficilmente quantificabile con gli scarni numeri di una contabilità assicurativa, aveva provocato un senso di umiliazione in coloro che hanno una particolare attenzione per tutto ciò che esprime bellezza e che desiderano venga protetto e conservato per le generazioni future.
È importante ricordare che solo attraverso lo studio e la visione del bello che è stato realizzato nel passato, i nostri discendenti potranno avere una traccia concreta ed un sicuro indirizzo per i loro progetti di vita.
I figli di un Paese senza testimonianze del passato faticano a pianificare il futuro e sono indotti a ripiegare su una fredda sopravvivenza ipertecnologica che si autoalimenta attraverso continui artifici e invenzioni applicative. Tale metodologia però tramuta il presente, “l’attimo fuggente”, in un passato non più utilizzabile, da rottamare.
Un vero spreco di preziose conoscenze.
Ecco perché il ritrovamento dei diciassette capolavori d’arte rubati non deve essere solo una grande gioia per gli Amici dei Musei, che per scelta volontaria sono tutti amanti delle Arti di ogni tipo e di ogni tempo, ma tutta la popolazione dovrebbe partecipare a questo gioioso evento con un interessamento che finora mi è sembrato piuttosto tiepido e distratto.
Per contro, lo scossone provocato da questo drammatico evento potrebbe essere l’occasione per rimeditare sullo stato di fruizione de “Il bello in Italia” da parte di noi italiani, ma anche degli stranieri.
L’Italia, come ha ricordato Andrea Costa in un recente articolo su “Espansione”, da primo Paese al mondo visitato negli anni ’50 del XX secolo, oggi si trova al quinto posto, con un trend calante.
Abbiamo il più alto numero di siti proclamati dall’Unesco in assoluto, ma non abbiamo più le capacità di attrarre turisti interessati alla loro conoscenza.
La scelta in Italia di Paesaggi, Città d’arte, Siti, Musei è per qualità e preziosità sterminata.
Allora perché le statistiche ci ricordano che l’Italia non è più attraente come prima? O meglio, perché l’Italia è rimasta al palo, mentre altri Paesi, concorrenti storici come Francia, Stati Uniti, Spagna, ma anche new entry a vocazione turistica emergente come Cina, Inghilterra, Germania ci stanno superando?
Se delimitiamo la nostra osservazione ai grandi musei italiani non si può non sottolineare che nel corso degli anni le strutture pubbliche ed i politici responsabili del settore abbiano tentato, nei limiti delle disponibilità finanziarie, di migliorare la struttura e la gestione degli stessi.
Ma purtroppo si è quasi sempre trattato di battaglie perse in partenza.
Stato o Enti locali, titolari della gestione dei musei, hanno sempre operato non attraverso interventi radicali e rapidi nel tempo, ma diluendo in tempi biblici interventi parziali e spesso in contrasto tra loro.
Un esempio emblematico: a Milano già negli anni settanta del secolo scorso si parlava della “Grande Brera”, cioè della fruizione di tutto il complesso architettonico braidense, compreso il piano terra, da sempre utilizzato dalla Accademia di Belle Arti, per allestire una grande pinacoteca di dimensioni e respiro mondiale atta ad accogliere degnamente l’incredibile e vasta collezione di dipinti famosi e preziosissimi che compongono tuttora il suo patrimonio.
A tutt’oggi l’Accademia di Belle Arti è ancora lì ed occupa tutti i locali del piano terra. Anzi, sono stati fatti importanti lavori di ristrutturazione e adeguamento per migliorare doverosamente la didattica e lo studio.
E la Pinacoteca, anch’essa oggetto, per la verità, in questi mesi di importanti e meritori lavori di ristrutturazione ed ammodernamento, continuerà a condividere con la celebre Biblioteca Braidense il solo piano superiore del glorioso palazzo milanese, già sede dei Gesuiti.
Un altro esempio di scarso coordinamento: lo scorso anno Dario Franceschini, ministro dei Beni Culturali, con una grande azione meritoria ha nominato venti nuovi direttori di importantissimi musei e siti culturali italiani, scegliendoli anche tra dirigenti di strutture non statali o addirittura provenienti dall’estero.
Un grande passo avanti ed una novità assoluta nella gestione della funzione pubblica.
Mi risulta però che uno di questi, lasciato il più piccolo, ma ben funzionante, museo che dirigeva, giunto nella prestigiosissima nuova sede, sia stato ricevuto da un buon numero di custodi, ma quasi nessun funzionario amministrativo. Evidentemente fino ad allora quella sede era particolarmente considerata per la sua capacità …occupazionale.
Ritornando al nostro più famigliare, ma non meno prezioso, Museo di Castelvecchio, il prossimo ritorno delle diciassette opere ricuperate, dovrà essere l’occasione per ricordare ai veronesi, a volte un po’ dimentichi, che essi vivono letteralmente adagiati su un numero incredibile di bellezze architettoniche, paesaggistiche e museali che pochissime città italiane, ma anche europee, possiedono; e che meritano di essere viste e riviste per meglio conoscere la propria città
Nello specifico, il Museo di Castelvecchio ha avuto l’opportunità, direi anche la fortuna, di essere stato ristrutturato radicalmente nella seconda metà del secolo scorso da un grandissimo architetto, oggi lo proclamerebbero una archistar: il veneziano Carlo Scarpa.
Ma sicuramente lui, homo faber costruttivo e laborioso, avrebbe rifiutato questo ampolloso titolo.
Trasformò una vecchia struttura museale in stile finto gotico, molto danneggiata dagli eventi bellici, dove le opere erano presentate attraverso una monotona e prevedibile sequenza, in una moderna, vibrante e coinvolgente esposizione museale, divenuta ben presto un modello per gli studiosi e gli appassionati di tutto il mondo.
Ancor oggi si vedono gruppi di studiosi, in particolare giapponesi, aggirarsi per il museo, ma anche per la città, per ammirare e analizzare le opere scarpiane di cui Verona si adorna.
Senza addentrarci in esami più approfonditi, basta rammentare la fuga delle cinque sale a piano terra che compongono la Galleria delle Sculture trecentesche per avere l’idea palpabile della grandezza di Carlo Scarpa nell’offrire al visitatore la possibilità di esaminare da vicino ed in modo suggestivo antiche sculture medioevali in marmo che in origine erano collocate in buie chiese e cattedrali molto più in alto e lontane dai fedeli.
Una interpretazione eccelsa, ma rispettosa della museologia.
Ma gli anni passano inesorabilmente e certe soluzioni tecnologiche scelte da Carlo Scarpa negli anni Sessanta del secolo scorso, allora ardite e all’avanguardia, sono oggi irrimediabilmente superate.
Gli stessi bellissimi accordi cromatici scelti da Carlo Scarpa per sottolineare ed esaltare l’architettura della Galleria delle Sculture, dal verde pallido dei soffitti in contrasto con il grigio cemento dei pavimenti, al bianco delle pareti, al rosa della pietra di Prun, con gli anni si sono notevolmente affievoliti.
Lo stesso progettista se fosse ancora tra noi sarebbe il primo a suggerire nuove più ardite e soddisfacenti soluzioni.
Il museo fu concepito per essere visitato nelle ore diurne, e quindi l’architetto diede massima importanza all’illuminazione naturale e alla collocazione delle opere in funzione della posizione delle finestre, previste con vetrate non schermate da tendaggi di alcun tipo.
Ma oggi il museo resta aperto al pubblico fino a sera, e a volte anche fino alle ore più tarde.
La qualità del pubblico è mutata e soprattutto la sua consistenza: è quindi opportuno e necessario adeguare molte strutture accessorie alle nuove esigenze.
Tralascio per ora di soffermarmi sull’ingrandimento, o il totale rifacimento, della sala di ingresso, della biglietteria, del book shop, dei servizi, per non parlare dell’inesistente caffetteria.
Ma suppongo che almeno l’illuminazione artificiale delle sale di esposizione potrebbe essere ammodernata con una certa urgenza.
Nella Galleria delle Sculture le piantane in ferro che sostengono le fonti luminose, disegnate da Carlo Scarpa sono un degno corollario alle sculture medioevali, perfettamente in linea con lo stile voluto dal Maestro.
Ma nel trascorrere di mezzo secolo le lampadine a incandescenza in vetro trasparente con filamento di tungsteno, che fornivano una luce calda giallo-rosata, sono state sostituite, credo anche per problemi di risparmio energetico, con sfere LED che emanano una luce freddissima (non meno di 5500 gradi Kelvin), che snaturano completamente il quadro ambientale cromatico, penalizzando il godimento visivo delle suggestive sculture, nate per essere viste al lume di candela dei luoghi sacri.
Un miglioramento dell’illuminazione della Galleria, reso possibile dagli enormi progressi fatti dall’illuminotecnica, che nell’ultimo decennio ha offerto soluzioni nuove ed ottimali a costi sempre più decrescenti, potrebbe rivitalizzare e rendere più attraente la sua visita.
Tralascio la descrizione delle plafoniere con …tubi al neon (poi sostituiti con tubi fluorescenti), che Carlo Scarpa adottò per le sale della pinacoteca al primo piano, essendo allora quanto di più moderno offriva l’industria dell’illuminazione.
Oggi la disponibilità di piccoli spot e di faretti alogeni o led (gli stessi che i bravissimi allestitori di mostre temporanee utilizzano già da tempo e su larga scala), potrebbero rendere più affascinanti e godibili le importanti e suggestive opere pittoriche e murali esposte nella Galleria al primo piano.
Giova ricordare che il Comune di Verona ha in attività operativa un Servizio allestimenti e manutenzione dei musei civici con valentissimi e capaci dirigenti e operatori che sono certamente in grado di progettare e realizzare migliorie di questo tipo.
Sono piccoli, ma fondamentali interventi a costi ragionevoli che il Comune di Verona, gioioso per l’insperato ritrovamento dei suoi diciassette capolavori rubati la sera del 17 novembre 2015, non si negherà certamente, offrendoli alla cittadinanza come riparazione morale alle inquietudini patite negli ultimi sei mesi.
Un gesto meritorio che avrebbe certamente una positiva eco, anche a livello internazionale.
Per richiamare infine più turisti qualificati in Italia, c’è tutto un altro discorso da fare, che coinvolge non tanto le singole città, come Verona, ma soprattutto le grandi Centrali Nazionali preposte a ciò.
Ma questa è un’altra storia.
Mi riprometto di parlarne in una prossima conversazione.

Giuseppe Perotti


"Arte e vino" alla Gran Guardia: una stupenda mostra che meriterebbe maggior interesse da parte del pubblico

Nella gloriosa storia delle Mostre d’Arte italiane l’anno 1951 segna lo spartiacque tra due ere molto diverse tra loro.

Tutte le manifestazioni precedenti erano state ideate e realizzate per un relativamente ristretto pubblico di appassionati ed intenditori.
Persone disposte anche a lunghi spostamenti in treno o in nave per soddisfare il piacere personale della scoperta e del confronto di opere d’arte che normalmente si trovavano presso musei lontani od erano gelosamente custodite in collezioni private.

Nel 1951 arrivò la Mostra del Caravaggio al Palazzo  Reale di Milano e tutto non fu più come prima.

Pochi giorni dopo l’apertura della mostra ideata dal grande Roberto Longhi il passaparola dei primi visitatori contagiò i milanesi di qualunque strato sociale e rapidamente una folla sempre più numerosa si accalcò ad ammirare quadri che, visti per la prima volta da vicino e ben illuminati, facevano scoprire epidermicamente la forza dirompente del grande artista lombardo.

Un ricordo personale ed emblematico: una domenica pomeriggio mentre ero in visita con mio padre alla mostra, la folla di visitatori, pur se disciplinata, si accalcò pericolosamente attorno ai quadri ( allora ancora non esistevano i sistemi di allarme sonori oggi di uso generalizzato). Il sovrintendente Gian Alberto Dell’Acqua, deus ex machina della manifestazione, e molto spesso presente in mostra, si consultò con gli assistenti, suggerendo di sospendere a titolo precauzionale l’ingresso del pubblico per una mezz’ora!

Da allora  le grandi Manifestazioni d’Arte hanno subito una profonda evoluzione.
Pur continuando a rivolgersi a strati sempre più ampi di pubblico, incrementando di conseguenza la missione educativa insita in ogni espressione culturale, alcune manifestazioni nascono da una precisa esigenza scientifica, allo scopo di raccogliere e mostrare opere di uno o più Maestri per catalizzare l’interesse degli studiosi ed approfondire attraverso la comparazione diretta temi ancora in discussione. Altre manifestazioni sono invece appannaggio di veri professionisti nella esaltazione di determinate opere d’arte, attraverso ben rodate strutture commerciali nelle quali il battage pubblicitario è la cifra primaria.
Il ritorno economico resta ovviamente il fine ultimo di questo tipo di  mostre.

Generalmente tali manifestazioni sono riconoscibili per la interessata insistenza nel pescare tra i sempreverdi Impressionisti francesi, i sicuri Vincent Van Googh o Pablo Picasso, oppure fanno leva su mostre monografiche. Le accorte tecniche pubblicitarie si concentrano assai spesso su una singola opera, o addirittura su un particolare  secondario inserito nell’opera: il successo di cassetta è assicurato.
Da questo punto di vista Verona è rimasta ancora una città fortunata.
La presenza di validi studiosi e dirigenti di famosi musei, e la sua naturale vocazione ad essere una primaria meta turistica d’Italia, fanno sì che la città sia sempre riuscita negli anni ad organizzare mostre di elevato interesse scientifico, ma anche di grande partecipazione popolare.

La mostra “Arte e Vino”, aperta alla Gran Guardia dall’11 aprile scorso al prossimo 16 agosto, rientra a pieno titolo tra le grandi mostre di interesse propedeutico, ma nel contempo assai godibile per la bellezza e la presa immediata delle opere di famosi artisti italiani ed europei che dal Cinquecento al Novecento hanno dedicato la loro attenzione a produrre capolavori dove la vite ed il vino sono evocati come simboli religiosi e profani caratteristici della Civiltà europea e delle sue molte Culture.

Dall’Antico Testamento ai giorni nostri, ma anche nella mitologia greca, l’albero della vite evoca la continuità della vita nel tempo, mentre il vino è tema dominante nella liturgia cristiana. È naturale quindi che i testimoni di ogni epoca, gli artisti appunto, abbiano dedicato ampio spazio alle loro rappresentazioni.

In tempi più recenti grandi artisti hanno rivolto la loro attenzione al momento operoso della raccolta delle uve e della loro trasformazione, fino a riprodurre con raffinata arte e poesia l’allegro utilizzo del prodotto finale.
Ricordo solo alcuni degli autori più famosi con opere in mostra per comprendere la sua eccezionalità: Tiziano, Rubens, Lorenzo Lotto, Annibale Carracci, Luca Giordano,  Sebastiano Ricci, Gianbattista Tiepolo, Pietro Longhi, fino ai più recenti Angelo Morbelli, Plinio Nomellini, Domenico Inganni, Filippo de Pisis, Fortunato Depero, Giorgio Morandi, Renato Guttuso, Pablo Picasso e molti altri ancora.

I due raffinati curatori, Annalisa Scarpa e Nicola Spinosa, hanno voluto integrare l’esposizione delle pitture con artistici oggetti in vetro, argento, rame, marmo e maiolica di rara e squisita fattura, alcuni dei quali sono rappresentati nelle pitture esposte.

Una mostra bella e godibile anche per la facilità di comprendere e gustare i soggetti e le scene rappresentate.

Nonostante queste suggestive premesse la mostra fa fatica a decollare e le presenze  giornaliere di pubblico non sono in linea con l’importanza dell’esposizione. Non mi sembra che ci sia alcunché da imputare agli organizzatori, tenendo ben conto che al giorni d’oggi i budget per queste attività sono molto ridotti rispetto a tempi neppure troppo lontani.

Mi sia però permessa una piccola osservazione: il titolo della mostra: “Arte e Vino” mi sembra un po’ troppo elementare e passibile di essere mal compreso dal possibile visitatore. Dico questo anche perché, curioso come in genere sono, nel corso di una mia visita alla mostra ho chiesto a chi opera in loco se fosse possibile dare una classificazione ai visitatori in base alle loro aspettative. È così risultato che alcuni pensavano che la mostra fosse una appendice ad alto livello artistico di un’altra manifestazione commerciale tipo Vinitaly; e che accanto alle opere fossero esposte bottiglie delle più prestigiose case vinicole veronesi.

Per contro altri visitatori sono rimasti positivamente sorpresi dalla concentrazione in un’unica mostra di opere di così famosi pittori provenienti dalle più celebri Gallerie mondiali come l’Hermitage, il Louvre, la Galleria dell’Accademia, Ca’ Pesaro, ed anche da esclusive ed inavvicinabili collezioni private.

Pensando ai messaggi subliminali che l’odierna scienza delle comunicazioni  può suggerire, un titolo un pochino più accattivante avrebbe potuto stuzzicare maggiormente la curiosità dei potenziali visitatori.
Credo invece che coloro che a livello globale coordinano tutte le attività turistico- culturali della città (spero proprio che Verona, come quarta città turistica italiana, abbia in funzione una Sala di regia di questo tipo), coordinino in maniera più  razionale e logica la grande quantità di eventi che interessano la città, e in particolare la Bra.

Vi descrivo ora che cosa ho osservato attraversando in diagonale la piazza mentre tornavo a visitare la Mostra alcuni giorni or sono:

  • Sotto l’Ala dell’Arena mi sono imbattuto in una folla variopinta e festante di qualche migliaio di persone, frammiste a centurioni e gladiatori, che attendeva l’apertura degli arcovoli per assistere all’esibizione canora di Romina e Albano.
  • Nello spazio tra il palazzo degli Honorj e il monumento a Vittorio Emanuele II tre giovani suonavano su un palchetto musica metal-rock amplificata ad almeno 105 dB.
  • Sulla gradinata esterna della Gran Guardia, frammisti a decine di turisti esausti, stazionava un folto gruppo di giovani che attendeva in allegria  una festa di fine anno scolastico di un liceo veronese che si sarebbe svolta sotto il portico della Gran Guardia di lì a poco.
  • Sulle pareti ai lati del fornice centrale della Gran Guardia penzolavano due striscioni di tela con scritto in verticale “Arte e vino” ed a caratteri più piccoli le annotazioni logistiche per raggiungere la mostra.

Quattro momenti diversi tra loro,che hanno comunque ognuno diritto ad esistere.

Ma chi di dovere dovrà in futuro fare in modo che sovrapposizioni di questo tipo non abbiano più a ripetersi. Unitamente ad una preparazione logistica e pubblicitaria più incisiva e adeguata, mi auguro vivamente che i prossimi viaggi a Verona di Rubens, di Guido Reni e dei loro compagni d’arte, abbiano un riscontro ed un successo di pubblico pari a quello espresso dai critici d’arte per l’attuale Mostra, che è molto alto e  lusinghiero.

 

Giuseppe  Perotti


Paolo Vigevani: fotografo a tutto tondo

Agli Scavi Scaligeri, in pericolo di chiusura, ancora una mostra fotografica di livello internazionale

 

È certamente emblematico che in poco più di un anno questa rubrica, gestita dagli Amici dei Musei, si sia occupata per ben tre volte di fotografia.

In effetti per molti decenni l’interesse per questo settore è stato molto circoscritto. L’esposizione di fotografie ed il confronto dialettico tra la bravura e la capacità interpretativa dei fotografi avveniva solo nel chiuso dei Circoli Fotografici.

Ma, prima negli Stati Uniti, poi nel Centro- Nord Europeo, ed infine anche in Italia, la fotografia, intesa come pura espressione individuale, ha assunto una notevole importanza, incrementando l’organizzazione di mostre, aste ed in parallelo anche una vera e propria attività antiquaria delle opere dei fotografi più noti.

Verona con la felice ed originale decisione di creare il Centro internazionale di Fotografia, utilizzando il sito degli Scavi Scaligeri per allestire fin dal 1996 mostre fotografiche, si è collocata come capofila in Italia per questo importante tipo di attività culturale.

La penultima esposizione, dedicata alla fotografa professionista del secolo scorso Tina Modotti, ha riscontrato un grande successo di pubblico, ed anche di botteghino, cosa non certo secondaria in tempi difficili.

Ma l’ultima mostra, inaugurata il 20 marzo scorso e dedicata alle opere di Paolo Vigevani, un fotografo dilettante di nome, ma non di fatto, ha rivelato fin dal giorno dell’inaugurazione un afflusso di visitatori impensabile.

L’attenzione del pubblico è stata catalizzata anche dagli oscuri presagi sul futuro del Centro di Fotografia.

Pare infatti che il cantiere edile che verrà installato per l’imminente inizio dei lavori di restauro al Palazzo del Capitanio e che sovrasterà gli accessi agli Scavi Scaligeri, rendendo più difficoltose le vie di uscita, abbasserà pericolosamente il livello di sicurezza richiesto per l’operatività di un sito aperto al pubblico.

Le motivazioni sono logiche, ma si sa come spesso vanno le cose sul patrio suolo.

È facile chiudere un sito aperto al pubblico, ma tremendamente difficile, a volte impossibile, riaprirlo in tempi ragionevoli; e soprattutto mantenendo l’utilizzo e le caratteristiche che il sito aveva prima della chiusura.

Pertanto anch’io partecipo alla mobilitazione per non chiudere il Centro internazionale di fotografia, e sono certo che gli appassionati di fotografia saranno ben disposti a transitare attraverso un provvisorio, ma sicuro, percorso di guerra per accedere ugualmente alle prossime Mostre, alcune delle quali già programmate.

a ritorniamo al nostro Paolo Vigevani.

Uomo di profonda e vasta cultura: figlio e nipote di editori e librai antiquari, e lui stesso editore specializzato in opere di architettura, ha coltivato silenziosamente per decenni la passione per la fotografia, sfociando solo più recentemente alla notorietà con alcune importanti mostre che hanno presentato le sue fotografie più significative.

La Mostra di Verona è certamente la più vasta e la più paradigmatica: sono esposte centotrentacinque opere scattate nell’arco di mezzo secolo.

Annoto qui per inciso la bella ed inconsueta presentazione delle fotografie. Nessuna cornice, nessun passe-partout. Le fotografie di vario formato, stampate su carta opaca, sono fissate ad una lastra di alluminio che le tiene ben distese. Non sono oggetti decorativi da appendere nel salotto buono; sono opere autonome, certamente opere d’arte, che surclassano per razionalità e raffinatezza molte “Installazioni” coeve.

Paolo Vigevani, lombardo di nascita, vive tra Venezia e Milano, ma anche a Verona ha svolto attività professionale, punteggiando il territorio con bellissimi scatti molto personali.

La frequentazione con progettisti e costruttori lo ha naturalmente portato a prediligere la fotografia di soggetti architettonici e di paesaggi piuttosto che la figura umana.

Anzi nelle non molte fotografie che riprendono anche persone, queste rimangono spesso un corollario al paesaggio sullo sfondo, o al prospetto di un ponte o di una particolare costruzione. Ma sono sempre questi ultimi che assumono comunque la titolarità di soggetto principale.

Con la loro presenza le silhouette delle persone si limitano a vivacizzare ed a valorizzare il manufatto od il paesaggio che a Paolo Vigevani interessa riprendere.

Spettacolari come idea e come tecnica fotografica sono ad esempio le foto titolate “Al Mart”, “Idea di lettura” e “Un saluto dal ponte”, quest’ultima utilizzata anche per le locandine e per la copertina del catalogo.

Ma altrettanto sublime è il paesaggio titolato “Cave a Campocecina”, che rende alla perfezione la crudezza e la maestosità di un immenso cantiere di lavoro. A mio giudizio i capolavori assoluti della Mostra sono gli scorci architettonici “Alla stazione” e “Muro del padiglione austriaco” per l’assoluta purezza del disegno.

Paolo Vigevani nasce ovviamente come fotografo che utilizza il processo fotochimico ai sali d’argento per il bianco e nero (processo ancora oggi insuperato per la resa e la morbidezza dell’immagine), per passare poi al colore ed infine alla foto digitale.

Un passaggio tranquillo, consapevole, non traumatico, perché il bravo fotografo, utilizzando al meglio le nuove tecnologie, continua a sviluppare le sue doti di sensibilità artistica e professionale, ottenendo la miglior fotografia da ciascun soggetto prescelto, anche quello apparentemente più semplice e facile.

Nelle opere dell’ultimo quinquennio, tutte ovviamente digitali e a colori, l’autore va poi alla ricerca di effetti particolari, come ad esempio la ripresa di soggetti riflessi sull’acqua, su superfici vetrate o riflettenti che provocano effetti fantasmagorici.

Pur non amando particolarmente questo tipo di ricerca fotografica, debbo riconoscere che Paolo Vigevani ha raggiunto anche in questo tipo di riprese effetti stupefacenti.

Senza richiamare, come fa qualche illustre critico, i manifesti strappati di Mimmo Rotella od i sacchi sdruciti e rattoppati di Alberto Burri, direi che si tratta di originalissime fotografie à la mode de Vigevanì.

Grazie Paolo per aver potuto trascorrere una mezz’ora di piacevole godimento e riflessione visitando la tua bella mostra.

 

Giuseppe Perotti


Con la mostra di Tina Modotti si rinnova un antico interrogativo

Nel dicembre del 2013, dopo aver visitato la bella mostra di fotografie di Gianni Berengo Gardin, allestita presso il Centro internazionale di fotografia, inserii su questo sito alcune mie considerazioni sulla mai risolta questione della valenza artistica o artigianale della fotografia stessa.

Non avrei ripreso l’argomento se non ci fosse oggi l’occasione della esposizione, sempre al Centro internazionale di fotografia, di opere di Tina Modotti (che gli Amici dei musei di Verona andranno a visitare il prossimo 20 febbraio).

Tina Modotti fu una singolare figura di “ italiana del mondo” che trovò nella fotografia, grazie anche al suo maestro ispiratore e compagno Edward Weston, una profonda ragione di vita.

Nasce sul finire dell’Ottocento a Udine da famiglia numerosa e povera. Il padre, operaio emigrante, si reca prima in Austria poi in USA a San Francisco. Primi anni scolastici a Udine, poi, dodicenne, il lavoro in filanda. A diciassette anni raggiunge il padre in California dove fa l’operaia, la camiciaia, la modista.

Diventa anche attrice nella nascente vicina Hollywood, finchè conosce Edward Weston, già allora famoso fotografo statunitense.

Tra il 1920 ed il 1927, impadronitasi rapidamente dei segreti della fotografia, soggiorna a più riprese in Messico. Ed è proprio questo importante Paese latino-americano che vede il periodo più intenso e creativo di  Tina Modotti fotografa.

Le sue fotografie, ovviamente in bianco e nero, scattate con fotocamere ingombranti e tecnicamente molto semplici, ci danno un’immagine vivida ed impressionante di un mondo povero, ma orgoglioso della propria individualità, colto in un periodo particolarmente turbolento, sconquassato da rivolte che tendono ad  affrancare le popolazioni più bisognose da sudditanze secolari.

Nell’ultimo decennio della sua breve vita, morirà infatti nel 1942, affiancherà alla sua intensa attività di fotografa un pericoloso ed avventuroso esercizio di agitatrice politica.

Comunista militante, essendo vicina a molti esponenti internazionali di quel partito, viene arrestata ed espulsa dal Messico. La troviamo dapprima a Berlino, poi in altre capitali europee come Parigi e Mosca. Nel 1936 si reca con i suoi compagni di fede politica in Spagna, dove infuria la guerra civile. Rientrerà in Messico nell’ultimo periodo della sua vita.

Ma a noi interessa la Tina Modotti fotografa, e di questo saremo ampiamente soddisfatti visitando prossimamente la Mostra di Verona, ma soprattutto siamo curiosi di conoscere il suo pensiero sulla Fotografia, espresso attraverso molte lettere inviate ad amici e compagni.

Quando alcuni critici, commentando sue foto, parlano di “arte” e di “artistico”, il suo giudizio è tranchant:

“Mi considero una fotografa, niente di più; … cerco di produrre non arte, ma oneste fotografie, senza distorsioni o manipolazioni”.

Ancora la Modotti ricorda ad un amico:

“… e molti fotografi vanno alla ricerca dell’Effetto Artistico, imitando altri mezzi di espressione grafica. Il risultato è un prodotto ibrido che nulla apporta alla Qualità Fotografica”.

Parole taglienti che dovrebbero por fine ad ogni discussione in merito.

In un altro suo scritto fa invece una chiara distinzione tra buone e cattive fotografie.

“Buone sono quelle in cui l’operatore, utilizzando nel migliore dei modi i mezzi tecnici che lo strumento offre, registra con obiettività la vita in tutti i suoi aspetti. Cattive fotografie sono al contrario quelle in cui l’operatore, che certamente soffre di un complesso di inferiorità, ricorre ad ogni sorta di imitazione, attraverso trucchi e falsificazioni, quasi si vergognasse di riprendere  la realtà  come si presenta. La fotografia è il presente: fissa l’attimo fuggente.
Se il fotografo ha sensibilità ed intelligenza, il risultato dello scatto raggiunge il massimo livello”.

Sono parole chiarissime che non necessitano di alcun commento, ma mi portano comunque a formulare una riflessione: la maggior parte dei grandi e grandissimi artisti, che dalle più antiche civiltà fino ai giorni nostri hanno prodotto opere di incredibile forza e bellezza, si ritenevano artigiani o artisti?

Penso proprio che la gran parte di essi si ritenesse artigiano, e come tali fossero riconosciuti dai loro contemporanei.

Scrutavano e decrittavano la realtà che si presentava loro e la riproducevano con diverse modalità su supporti di vario tipo, sulla base delle tecniche che avevano appreso in bottega, ma soprattutto attraverso la sensibilità della propria cultura e del proprio stato d’animo.

In seguito i critici, attraverso lo studio e l’interpretazione delle loro opere elevarono molti di loro, e giustamente, al rango di artisti, e per alcuni anche di sommi artisti.

Ma loro non fecero in tempo a saperlo.

Sono considerazioni molto intuitive, ma che mi rafforzano l’idea che un artista prima di essere tale, o peggio ancora, di autoproclamarsi tale, debba conoscere le tecniche ed il mestiere dell’artigiano.

E ciò vale, credo, anche per la fotografia.

Fatte queste considerazioni, constato con amara ironia come il tramonto della fotografia basata su processi chimici, per la verità difficile, complessa e costosa, a vantaggio della fotografia digitale che ha incrementato di almeno mille volte il numero di scatti che miliardi di esseri umani replicano ogni giorno, invece di migliorare ed affinare la capacità di fotografare, abbia prodotto una scadente banalizzazione.

Scomparsi gli ostacoli tecnici che un tempo obbligavano il fotografo diligente a predisporre i tempi di posa, l’apertura del diaframma, la messa a fuoco e gli eccessivi contrasti di luce, oggi ha anche dimenticato il piacere di predisporre con intelligenza l’inquadratura migliore e più appropriata.

Si scatta a mitraglia un incredibile numero di foto, e quando si è stanchi si rivolge la fotocamera (o il cellulare o il tablet) verso sé stessi e si spara una serie di…selfie.

Una delle tante occasioni mancate da un distorto concetto di progesso.

Un vero peccato.

 

Giuseppe Perotti


Dosso Dossi: alla scoperta di un grande ma poco conosciuto pittore del ‘500 italiano

Noto con piacevole sorpresa che il “metodo Paolo Veronese” funziona a meraviglia. Questo metodo non è certo una novità.
Gli ideatori di importanti Mostre d’arte hanno sempre cercato, e significativamente anche in Verona, di preparare i possibili visitatori con incontri propedeutici.

Ho un antichissimo e piacevole ricordo di quando a Milano, ancora ragazzo, partecipai una sera con mio padre presso il “Centro culturale Pirelli” ad una conferenza preparatoria per una visita organizzata a Venezia. Per la prima volta quella sera sentii nominare un certo Zorzon da Castelfranco, e qualche giorno dopo vidi a Palazzo Ducale, non del tutto digiuno sulle difficoltà di una accettabile interpretazione, quella enigmatica meraviglia della “Tempesta”.

Ma Paolo Veronese ha avuto un trattamento di eccezionale favore, con ben sei conferenze che hanno permesso il traghettamento alla Mostra di Verona con una miglior consapevolezza di ciò che si andava a conoscere. Confesso invece che finora su Dosso Dossi non ne sapevo molto. Un ferrarese che lavorò con impegno presso la Corte estense di Alfonso I a Ferrara ed a Modena, con due importanti trasferte di lavoro fuori ducato: una alla Villa Imperiale di colle San Bartolo presso Pesaro, dove è ancora possibile ammirare un bellissimo soffitto affrescato per i Della Rovere, ed una ben più importante, durata oltre un anno, presso la corte di Bernardo Cles il principe-vescovo di Trento.

Dosso Dossi si recò inoltre più volte nel corso della sua vita professionale a Venezia, a Padova, a Roma, a Firenze, a Mantova, dove, studiando gli artisti più famosi che vi operavano, ebbe fonti di ispirazione, pur riuscendo a mantenere in tutta la sua opera uno stile suo proprio. E qui entra in scena il professor Vincenzo Farinella dell’Università degli Studi di Pisa che con una esaustiva ed impeccabile conferenza alla Gran Guardia ci ha offerto uno spaccato fondamentale sull’anno di attività del Dossi a Trento. Città dove resta aperta fino al 2 novembre una Mostra con molte delle sue opere.

L’artista ferrarese, aiutato dal fratello Battista, dipintore di minore talento, e insieme a due grandi pittori del tempo, il Romanino ed il Fogolino, affrescò numerose sale della nuova ala del Castello del Buon Consiglio, il Magno Palazzo, una grandiosa costruzione rinascimentale appena edificata e che si allineava al trecentesco Castelvecchio.

Il Magno Palazzo è lo specchio di chi lo volle edificare: Bernardo Cles. Una figura basilare nel mondo politico e religioso della prima metà del Cinquecento. Pur essendo già il Vescovo-Principe del principato tridentino, come cardinale di Santa romana Chiesa era membro del Sacro Collegio, e nel contempo era anche cancelliere e consigliere degli imperatori Massimiliano I e Carlo V!

Una figura di primaria grandezza che da Trento seppe equilibrare, ed almeno in parte far interagire tra loro due grandi culture: la italiana e la tedesca in uno dei momenti più travagliati e tragici della storia nostra ed europea. Una piccola chiosa di carattere architettonico che ben “fotografa” lo spirito di Bernardo Cles: nell’appartamento clesiano, cioè la zona del Magno Palazzo da lui abitata (nei rari momenti che non era in viaggio), il locale più vasto, più riccamente decorato, era la “Libraria”, la biblioteca dove il cardinale conciliava studio, politica e preghiera.
Un vero grande umanista.
Qui termina la prima parte della nota, perché domani andrò a Trento a visitare la Mostra. Seguirà un commento.

Nome del quadro in ordine da sinistra a destra:

  1. Giovane pittore di farfalle, Castello Reale, Cracovia
  2. San Sebastiano, Pinacoteca di Brera, Milano
  3. Ninfa e Satiro, Palazzo Pitti, Firenze
  4. La Rabbia, Fondazione Cini, Venezia
  5. Apparizione della Madonna con il Bambino a Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, Uffizi, Firenze

Ecco il mio primo commento a caldo, subito dopo il rientro dalla tournée tridentina.
La scelta della sede espositiva non poteva essere più felice. Il Magno Palazzo rappresenta una fusione perfetta tra la leggiadria rinascimentale italiana e la severa razionalità teutonica. Per sottolineare l’importanza della Mostra e la scelta strategica della location, va ricordato che l’ideazione parte dalla Galleria degli Uffizi nell’ambito del progetto “La città degli Uffizi”, e curata, oltre che da Vincenzo Farinella, da Lia Camerlengo e da Francesca de Grammatica. Il prof. Farinella, collocando nelle sale del Magno Palazzo, affrescate dallo stesso Dosso Dossi (oltre che dal Romanino e dal Fogolino), alcune significative opere pittoriche di Dosso Dossi provenienti da famosi musei e collezioni private, ha fatto un intervento di alta filologia figurativa. Si percepisce chiaramente un muto colloquio tra le figure delle volte affrescate ed i soggetti dipinti dalla stessa mano ed esposti più sotto.

Uno dei più celebri quadri di Dosso Dossi, “Giove pittore di farfalle” proveniente dal Castello reale di Cracovia, è stato posto nella Camera del Camin Nero sotto la volta affrescata da un monocromo ideato da Dosso Dossi, anche se poi realizzato dal fratello Battista, e che rappresenta fedelmente quel trionfo della Virtù raccontato da Leon Battista Alberti e forse attribuibile allo scrittore greco Luciano.
La curiosità interpretativa deriva dal fatto che il Dossi, a differenza dell’affresco soprastante, non ritrae nell’opera pittorica Giove intento a colorare le ali delle farfalle (la rappresentazione figurativa di un dio indifferente alle cose terrene, ma intento ad una attività trascendentale) come lo descrive l’Alberti, ma lo trasfigura in un vero, diligente ed impegnato pittore di farfalle!

Perché il Dossi fa questa scelta? È uno dei misteri per i quali i curatori hanno voluto sottotitolare la mostra con la frase: “Rinascimenti eccentrici al Castello del Buonconsiglio a Trento”.
Le ipotesi più plausibili sono che lo stesso autore essendo molto orgoglioso di essere pittore, (tanto da inserire il suo autoritratto tra le incisioni di uomini illustri predisposte per un libro, e riscattando così il fatto che nell’età greco- romana i letterati fossero ritenuti i soli e veri artisti, relegando i pittori tra gli artigiani), abbia “divinizzato” la sua arte, promuovendo il capo degli dei a…pittore!
O più semplicemente penso che Dosso Dossi abbia voluto onorare ed esaltare il suo mecenate ferrarese Alfonso I, pittore dilettante lui stesso, paragonandolo a Giove.
Al di là di questi gustosi aneddoti, il fatto che in Mostra, per meglio confrontare la capacità artistica di Dosso Dossi, siano state presentate anche opere del Garofalo, di Amico Aspertini, di Tiziano, di Giorgione e perfino un disegno di Michelangelo sta a dimostrare come questo impegnato e fortunato pittore, sicuramente molto ben coadiuvato dal fratello Battista e dai collaboratori di bottega nel portare a compimento un grande numero di opere di pittura religiosa o profana, di ritrattistica e di decorazione parietale, riempia una casella di primissimo piano tra i grandi artisti della prima metà del Cinquecento .

In mostra a Trento vi sono delle opere che attraverso una sapiente ripulitura da ridipinture posteriori, mostrano una qualità eccezionale.
Ricordo il San Sebastiano proveniente da Brera. In esso c’è l’eco dei Prigioni michelangioleschi.
Particolarmente raffinate ed enigmatiche le cinque tavole a rombo (in origine erano nove ed a forma di mandorla) che erano inserite nel soffitto ligneo della camera da letto di Alfonso I a Ferrara. Sono capolavori che precorrono l’opera secentesca di Annibale Carracci. Certe altre sue opere non sono precaravaggesche, anche se lo sembrano. Ma certamente Caravaggio, che era attento ad ogni tendenza pittorica del momento, sicuramente si ispirò anche a Dosso Dossi!

Paradossalmente il lungo oblio della sua opera tra i cultori dell’arte fino ad almeno tutto l’Ottocento può venir attribuito…alla sua grande amicizia con l’Ariosto.
Questi infatti in una terzina dell’Orlando Furioso lo paragona a “i pittori di quai la fama sempre starà fin che si legga e si scriva”, e cioè Leonardo, Mantegna, Giovanni Bellini, Raffaello e Tiziano. Ma il Vasari non apprezzò la sua opera e lo relegò in secondo piano, creando una lunghissima zona d’ombra. Le incerte od erronee attribuzioni a Dosso Dossi di molte opere del fratello Battista crearono ulteriori incertezze.

Ancor più meritoria quindi la volontà degli organizzatori della Mostra di Trento di far conoscere uno dei più raffinati ed importanti artisti del nostro Rinascimento.

Giuseppe Perotti


Ciao Paolo, a presto

Famoso lo eri già, e da lungo tempo.

Non per nulla imperatori, re e principi elettori cercarono di acquistare o di impossessarsi comunque delle tue più prestigiose opere per impreziosire le loro dimore.
Sono gli stessi quadri che oggi fanno bella mostra di sé nelle più celebri pinacoteche mondiali.

La fama che aleggiava attorno alla tua figura di grande e riservato artista era però già allora diversa da quella più epidermica e immediata, che emanavano altri celebri artisti del tempo.
Tu eri noto soprattutto per quelle sontuose tele commissionate per ornare le ricche dimore patrizie sul Canal Grande, o le chiese di Venezia, come San Sebastiano, se non addirittura le riservatissime sale del Collegio, del Consiglio dei Dieci, o del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale.

Eri stato consacrato come uno dei principali Artisti Ufficiali della Serenissima, ma eri conteso anche dai più prestigiosi Ordini religiosi veneziani che ti chiamavano per ornare con grandi ed elaboratissimi teleri le pareti dei refettori claustrali.
Bellissime opere ispirate più ad immaginari e pantagruelici banchetti rinascimentali che non alla mistica Ultima Cena di Gesù con i suoi Discepoli.

Finora anche per noi non era stato facile ammirare da vicino i tuoi capolavori.

Poche esposizioni, e quasi sempre all’estero. Quella molto importante di Venezia del 1939 risultava troppo lontana nel tempo per chi è ancora vivente nel terzo millennio d.C. Nel migliore dei casi si potevano ammirare tue opere su pareti e soffitti da distanze tali che, pur mostrando la complessità dell’insieme e la nitida cromaticità, non permettevano una analisi calligrafica ed uno studio della tua superba abilità creativa.

Tu, Paolo, nato a Verona, ma veneziano d’adozione, sei infatti rimasto molto “padano” e poco tizianescoper la tecnica coloristica e per l’impostazione figurativa.

Poi arrivò il 2014.

L'anno che con due Mostre a te dedicate, una alla National Gallery di Londra, seguita a ruota dalla Mostra di Verona alla Gran Guardia, hanno permesso a quasi duecentomila visitatori di ammirare molte delle tue più importanti opere.

Londra e Verona hanno esposto buona parte delle opere che per dimensioni possono venir movimentate con sicurezza.

A Verona hanno sfiorato l’impossibile presentando, dopo un lungo e sapiente restauro, il telero del Convito in casa di Levi, opera della Bottega, ma alla quale hai sicuramente messo mano anche tu, specie sul lato destro dei cinquanta (!) metri quadrati della grande e scenografica opera.

Londra ha avuto invece il privilegio di esporre al posto d’onore della Gallery la celeberrima Pala di San Giorgio.

Ed è giusto che sia andata così, visto che i visitatori della Mostra veronese la potevano comunque ammirare, di ritorno da Londra, nella sua stupenda sede naturale della Chiesa di San Giorgio in Braida in riva all’Adige; luogo sacro ricchissimo di opere d’arte eccelse.

I critici londinesi, riconoscenti, l’hanno definito uno dei più bei quadri al mondo in assoluto.

La Mostra di Verona, nata come idea precisa cinque anni fa, quando Paola Marini si ritirò per mesi nella villa fiesolana I Tatti per approfondire le conoscenze sulla tua pittura, ha avuto nella fase finale della preparazione un importante momento di studio e di arricchimento attraverso la realizzazione di ben sei conferenze propedeutiche all’evento, tenute dai maggiori studiosi della tua pittura, italiani e stranieri.

Conferenze alle quali ha arriso un grande successo di partecipazione, con una presenza costante di otto-novecento persone attente ed interessate.

Le conferenze hanno avuto soprattutto l’utilità di farci capire come sotto le tue apparenze di metodico e tranquillo grande artista del Cinquecento veneziano si celasse una personalità molto acuta e complessa, e che nonostante l’avvio, non agli studi, ma alla bottega fin dalla più giovane età, tu “scrivessi” tomi di teologia e di filosofia attraverso le opere pittoriche ed i bellissimi disegni preparatori.

In sei pomeriggi indimenticabili, caro Paolo, sei diventato una figura viva e parlante attraverso le esposizioni ed i commenti degli esperti.

Con grande sorpresa, alla mia prima visita in mostra, entrando nelle sale sapientemente allestite non da celebri archistar alla moda, ma da valenti tecnici che dimostrando la profonda conoscenza della tua pittura hanno messo in atto idonee strutture per valorizzarla ulteriormente, ho avuto la piacevole sensazione di entrare in un ambiente a me famigliare, come se avessi già precedentemente visitato la mostra.

Mi soffermavo davanti ad un quadro ed in automatico ricordavo le spiegazioni che Xavier Salomon, piuttosto che Bernard Aikema o Paola Marini mi avevano offerto in conferenza.

La visita alla mostra, che per noi Amici dei Musei non è mai un fatto mondano, ma sempre un momento di piacevole arricchimento personale, diveniva così la conferma visiva e definitiva di quanto avevo ascoltato durante le conferenze.

D’ora in poi per me tu non sarai più semplicemente uno dei grandi pittori del Cinquecento italiano, famoso per le grandi tele e per la netta scansione dei colori che rendono così uniche le figure dei personaggi da te ritratti.

Ti ricorderò anche per il nuovo metodo di avvicinamento per gradi alla comprensione delle opere esposte in una mostra, che rende più piacevole l’apprendimento dell’arte e della sua storia.

Grazie Paolo, a presto.

 

Giuseppe Perotti