Gli “Amici dei Musei” ieri, oggi, domani

Care Amiche, cari Amici,

riprendiamo le attività dell’associazione e del sito dopo la pausa natalizia con una bella riflessione del nostro Giuseppe Perotti sul ruolo degli Amici, perfetta per rinnovare il nostro “grazie!” a Isa di Canossa, presidente uscente, e per augurare buon lavoro al nuovo presidente Francesco Monicelli!

Volendo risalire all’Evo Antico una delle figure emergenti con una personalità colta e raffinata, amante e protettore delle arti, della poesia e delle scienze fu senz’altro Mecenate.

Amico e fidato consigliere di Augusto, ma anche dei più grandi uomini di lettere ed arti dell’epoca, Orazio tra questi, è rimasto nel tempo il simbolo dei protettori delle arti, tanto che ancor oggi il termine “mecenatismo ”sta ad indicare la nobile funzione di chi, pur essendo al di fuori delle strutture pubbliche di tutela e conservazione dei beni culturali, opera a livello personale per contribuire con varie modalità alla loro conservazione e valorizzazione nel tempo.

Anche se allora nella Roma Imperiale non c’erano musei pubblici nel senso moderno del termine, la figura di Mecenate può a ragione rappresentare l’antesignano degli attuali Amici dei Musei di tutto il mondo. Nei 1700 anni a seguire grandi amici e protettori delle arti e degli artisti furono coloro che esercitavano il potere civile e religioso nelle mille sfaccettature che caratterizzavano l’evoluzione storica dell’Europa. Quasi sempre la figura del protettore delle arti si identificava con il committente delle opere stesse, ed agiva in tal senso per amore del bello e per arricchire le proprie dimore, ma soprattutto per accrescere la propria potenza ed il prestigio pubblico essendo ancora assai lontani i tempi in cui verranno costruiti i primi musei per la gioia ed il godimento di tutta la popolazione senza distinzione di classe.

In quel tempo la concezione di una nuova opera d’arte, come dimostrazione di ricchezza e potere, non poteva dare risalto ai moderni concetti di tutela e conservazione. Spesso i nuovi proprietari di un sito già riccamente impreziosito di opere d’arte, le facevano disinvoltamente raschiare o distruggere per sostituirle con altre commissionate agli artisti più in voga del momento, e che molto spesso lavoravano esclusivamente per quel proprietario. Così, se nella Cappella Sistina il Buonarroti ricoprì bellissimi e recenti affreschi con opere che hanno toccato per potenza e perfezione stilistica le vette dell’arte di ogni tempo, dal Seicento in poi una eccessiva volontà riformatrice denaturò belle chiese romaniche e gotiche con pesanti ristrutturazioni nell’onnipresente stile Barocco. Solo con la caduta di Napoleone, che fra tanti sconvolgimenti provocò anche la lenta, ma decisa trasformazione degli Europei da sudditi a cittadini dei nascenti stati, sorse l’idea di museo anche negli Antichi Stati preunitari, inteso come luogo deputato alla raccolta di opere d’arte dove poter esercitare una tutela artistica che favorisse la miglior conservazione, oltre al godimento visivo delle opere da parte di tutti.

Si concretizzava così la possibilità di far conoscere ai cittadini una parte importante di quelle favolose opere che per secoli erano rimaste racchiuse in castelli, palazzi o conventi, off-limits per tutti. L’Ottocento vide quindi la nascita di molte realtà museali, per la maggior parte di proprietà pubblica, statale o civica, ma anche di pertinenza ecclesiastica o di privati cittadini. Buona parte del materiale esposto nei musei italiani nati nell’Ottocento proveniva dalle spogliazioni e dalle soppressioni napoleoniche, ma anche da importantissimi lasciti di illustri casate italiane. Le collezioni andarono poi arricchendosi per altri lasciti, donazioni e acquisti. In parallelo a queste luminose realtà andavano lentamente formandosi gruppi di appassionati di varia estrazione sociale che, in modo assolutamente autonomo e spontaneo, si impegnavano a fiancheggiare i neonati musei, fornendo aiuto e sostegno, e donando spesso anche opere di loro proprietà che andavano ad arricchire le collezioni pubbliche.
Importante fu l’interessamento di alcuni industriali che anche in Italia, seppure con un certo ritardo rispetto agli altri Paesi d’Europa si stavano affermando con le loro imprese, e non dimenticavano l’antico contesto estetico-culturale che per secoli aveva caratterizzato il nostro Paese.

Solo a metà del Novecento si concretizzano vere e proprie forme di associazione tra i simpatizzanti di questo o quel museo. Nascono così le Associazioni Amici dei Musei, forse ispirandosi anche alle numerose e dinamiche Società e Accademie Filarmoniche che caratterizzano da due secoli la vita musicale italiana. Sono belle realtà che hanno come scopo principale quello di mantenere vivo nella cittadinanza l’amore per l’arte e per la cultura a tutto tondo , con particolare interesse per la vita e l’attività delle strutture museali per le quali si sono costituite in Associazione.

Nel caso di Verona, la denominazione di Associazione Amici dei Musei Civici è tale in quanto fa riferimento al gruppo di musei di proprietà comunale che ha come capolista il Museo di Arte Antica di Castelvecchio, affiancato dal Museo archeologico, dal Museo degli Affreschi, dal Lapidario Maffeiano. Scorrendo gli statuti che regolano l’esistenza e l’attività delle Associazioni Amici dei Musei si evince che le finalità indicate sono molteplici, ed auspicano una serie di iniziative, anche piccole, che possono portare alla valorizzazione finale del patrimonio intellettuale e reale dei musei “adottati”. L’Amico dei Musei è una figura di alto livello morale e civico che può prestare la propria disponibilità e abilità partecipando alla vita del museo con una attività di collaborazione. È il caso ad esempio della partecipazione alle guardianie nelle sale d’esposizione quando c’è carenza di personale a ciò preposto, o dell’aiuto di uno o più soci nella gestione del Sito informatico. Ma l’Amico dei Musei può, anzi, deve in ragione delle sue capacità supportare i dirigenti del museo nelle ricerche o negli studi in corso con una efficace azione di sussidiarietà.

Ognuno poi dovrebbe aderire volontariamente ad una forma moderna di mecenatismo, singolo o collettivo, tendente ad integrare le risorse ufficiali delle strutture museali che, essendo di natura pubblica, possono non sempre essere certe nel tempo e risultare a volte sufficienti solo per l’indispensabile spesa corrente. Analizzando il piacere segreto e personale che può scaturire dall’aiuto concreto dato per una azione nobile come quella di “fare qualcosa per un museo “, il gesto può risultare molto appagante e consolatorio. Un settore molto importante di attività degli Amici è l’ “allevamento” dei giovani all’amore per l’arte. Qui va subito riconosciuto che gli Amici di Verona brillano di luce propria, avendo ideato e sviluppato un Gruppo Giovani preparato, efficiente ed entusiasta che a sua volta è divenuto un focus catalizzatore verso altri giovani ancora digiuni di questa opportunità e promotori di un allargamento del Gruppo giovani a  livello internazionale.

Il Gruppo Giovani è un esempio per quelle strutture pubbliche che si dedicano all’istruzione e che dovrebbero maggiormente interessarsi a questo particolare settore dell’apprendimento. I bambini, che sono naturalmente portati ad incuriosirsi della bellezza e magari cercano anche di riprodurla con buffi, ma significativi disegni, vanno incoraggiati ed aiutati prima che altre attenzioni li distraggano, trasportandoli nel regno della banalità e della noia. Queste sono le Associazioni Amici dei Musei di oggi. E domani?

Di certo saranno sempre in maggior numero perché l’interesse per il mondo museale è in fase crescente. Ma alcuni problemi che preoccupano oggi non spariranno, anzi potranno acuirsi ulteriormente. Mi riferisco in particolar modo alla opportunità che alcuni Amici possano offrire una partecipazione più attiva e concreta alla vita della Associazione, non limitandosi all’iscrizione annua e ad un troppo limitato coinvolgimento nella vita associativa. Più passa il tempo e più le Amministrazioni pubbliche saranno oberate da nuovi compiti istituzionali di varia natura: l’opera di sussidiarietà offerta da strutture come quelle degli Amici dei Musei risulterà perciò preziosa ed indispensabile. Ho ottime ragioni per augurarmi che l’Amministrazione Civica di Verona abbia anche in futuro quelle giuste attenzioniper tutto ciò che ha contribuito a collocare Verona fra le “città d’arte” italiane di prima grandezza.

Ma non dobbiamo dimenticare che se già oggi accanto alla “città d’arte“ Verona coesiste una Verona dedita a commerci internazionali di primaria importanza, fra pochi anni, con l’entrata in esercizio della galleria ferroviaria di base del Brennero (55 chilometri sotto terra tra Bressanone e Innsbruck) in avanzata fase di costruzione, la riduzione drastica dei tempi di trasporto delle merci dal Centro Europa a Verona, per poi essere smistate nel resto d’Italia e viceversa, potrebbe mettere “in sonno” la città d’arte, a tutto vantaggio di una grande e anonima città del commercio che potrebbe prendere il sopravvento su quanto di nobile e bello ha caratterizzato finora questa città. Proprio per questi possibili pericoli sarà opportuno, direi necessario, che le generazioni future non si trovino impreparate nella gestione del “bello“ di Verona. Del resto l’esempio di alcune città centro-nord europee già oggi campioni mondiali nei commerci terrestri e marittimi, e nel contempo poli attrattivi museali ed artistici di primaria importanza, fanno ben sperare per il futuro di Verona.

Comunque vadano le cose gli Amici dei Musei avranno sempre una funzione primaria; e a molti soci avanti negli anni, che giustificano la minor partecipazione alle attività sociali per quel senso di torpore rinunciatario che li attanaglia, ricordo loro un bellissimo scritto di Francesco Alberoni: La terza via tra il dovere e il piacere. L’illustre sociologo analizzando l’approccio di ciascuno di noi nei riguardi dello svago e del lavoro suddivide gli adulti in tre “tipi umani“ così sintetizzati: il primo tipo contempla coloro che considerano il lavoro una dura realtà e cercano in tutti i modi di godere del tempo libero e dello svago. Il secondo è appannaggio del tipo impegnato: tutto è dovere, moltissimo lavoro e niente svaghi. Il terzo tipo ha come obiettivo l’imparare sempre di più per fare sempre meglio; legge, studia; ogni esperienza è un mezzo per migliorare la conoscenza. Di fronte all’insuccesso si domanda: “Cosa posso imparare da questa lezione?” Ascolta, riflette per crescere e progettare nuove attività.

Gli Amici dei Musei appartengono o dovrebbero appartenere al terzo tipo umano; ed anche ad ottanta o più anni dovrebbero concepire l’appartenenza alla Associazione degli Amici dei Musei come una preziosa opportunità per arricchirsi culturalmente e vivere meglio.

 

Giuseppe Perotti


La Veneranda Fabbrica del Duomo

Pubblichiamo un omaggio del nostro socio… a Milano, città  in cui  è  nato e a lungo vissuto, e al suo più importante monumento. Invitiamo altri soci a contribuire con loro pensieri e scritti.

Un banco di sabbia con lenti di fango e miliardi di gusci di conchiglie in ottocento milioni e seicento trent’anni si è trasformato nel Duomo di Milano

Dalle Piramidi egiziane in poi, tutte le civiltà hanno voluto lasciare una traccia perenne della loro potenza attraverso l’innalzamento di gigantesche opere architettoniche, alcune delle quali sono giunte fino a noi. Nel bacino del Mediterraneo, dapprima i Greci, poi i Romani, furono costruttori di grandissimo valore, ed ancor oggi possiamo ammirare ciò che rimane di celebri costruzioni sacre e profane che attestano la potenza finanziaria, la capacità tecnica e la disponibilità inesauribile di braccia, più o meno schiavizzate, per realizzare opere imponenti, ma belle, armoniche e soprattutto durature. Sul finire dell’impero romano e nei primi secoli dell’Alto Medioevo le devastanti invasioni barbariche e le lotte fratricide fra grandi e piccoli gruppi armati emergenti nelle località ancora abitate, rallentarono di molto le attività architettoniche, se non per la costruzione di alte torri e fortilizi difensivi. Ma dopo il Mille, con il formarsi oltralpe dei primi abbozzi di organizzazioni politiche unitarie e con la nascente Età Comunale in Italia, riprese il desiderio di costruire cose nuove, parimenti allo sviluppo dei traffici e dei commerci, anche catalizzati dall’avventura delle Crociate. In particolare ogni centro abitato di una certa importanza desiderava onorare il Dio del Cristianesimo, e nel contempo rimarcare la propria rinnovata importanza commerciale e militare attraverso la costruzione di grandi chiese o pievi nello stile Romanico ( o Lombardo o Genovese-Pisano a seconda delle località). Con la loro grande mole e con gli svettanti campanili emergevano dai tetti delle altre costruzioni, quasi sempre di modeste e contenute altezze. Poi dalla Francia e dalla Valle del Reno irruppe il nuovo stile: il Gotico, che nella versione Internazionale esaltava al massimo le linee verticali, con ardite guglie, archi rampanti e contrafforti a sostegno delle altissime pareti delle cattedrali. Il Gotico in Italia, con uno stile Romanico ancora molto diffuso e per il generale utilizzo del cotto al posto della pietra, si addolcì nelle linee e nei virtuosismi architettonici, creando nondimeno degli assoluti capolavori per bellezza ed equilibrio estetico che ancor oggi ammiriamo in moltissime nostre città, nelle Abbazie e nelle solitarie Pievi. Ma nella Milano viscontea del XIV secolo avvenne qualche cosa di molto diverso e straordinario. Già nel 1353 era rovinosamente crollata l’altissima torre campanaria sull’attigua Basilica di Santa Maria Maggiore, la basilica Iemale che, con la vicinissima chiesa di Santa Tecla, la basilica Estiva, occupavano parte dell’area che sarà poi di pertinenza del Duomo. La chiesa venne rapidamente riparata, ma nacque l’idea di sostituire le due chiese con qualcosa di nuovo, unico per dimensioni e ricchezza di marmi e decorazioni. Di chi fu l’idea primigenia? Indubbiamente Gian Galeazzo Visconti, il Conte di Virtù, nonché Vicario Imperiale, nato curiosamente proprio nel 1353, l’anno del crollo del campanile, è nell’anno del Signore 1386 l’assoluto signore di Milano, e pertanto molto intenzionato a glorificare la sua potenza politica dando impulso all’avvio di una ciclopica nuova cattedrale. Essendo arcivescovo di Milano Antonio da Saluzzo, imparentato con il Conte di Virtù, è certo che quest’ultimo abbia elargito i primi finanziamenti e le patenti per dare inizio alla titanica costruzione. In effetti l’idea di una nuova cattedrale è anche di tutta la popolazione milanese, che aderisce entusiasta all’iniziativa, e non solo a parole. Donazioni di ogni tipo giungono alla neonata Fabbrica del Duomo, la struttura (l’impresa diremmo oggi), che per oltre sei secoli ha provveduto sia alla custodia e all’investimento dei denari raccolti, sia alla progettazione della chiesa, al reperimento e al trasporto delle centinaia di migliaia di tonnellate di materiale necessario al cantiere e alla costruzione vera e propria, che si protrasse per quasi cinque secoli, nonché alla continua e assai onerosa e impegnativa manutenzione che non ha soluzione di continuità. Le cronache milanesi di fine Trecento ricordano che oltre ai singoli, si va dal dono di una donnetta della sua pelliccetta logora ai drappi d’oro della Regina di Cipro, tutte le corporazioni cittadine parteciparono con offerte di denaro, di opere e di lavoro gratuito al fine di creare un importante capitale che permettesse il concretizzarsi del desiderio della cittadinanza milanese.

STRATEGIE COSTRUTTIVE

Dopo lunghe ed accesissime discussioni venne stabilito che il Duomo sarebbe stato costruito in stile gotico e vi sono documenti che indicano in Simone da Orsenigo il primo direttore dei lavori; o forse più attendibilmente fu colui che produsse i primi disegni preparatori , con violente dispute tra coloro che volevano affidare la direzione dei lavori a ingegneri tedeschi o francesi, aventi più famigliarità con le architetture gotiche, piuttosto che a tecnici italiani. Ma qui è d’obbligo una comparazione stilistica: il Duomo prende il via nel 1386 e ancora dopo due secoli continua la sua lenta e complessa costruzione, iniziata dall’abside, in stile rigorosamente gotico, perché così era stato stabilito, e così pretendevano i rigidi capomastri francesi e germanici che a tempi alterni si avvicendavano con quelli italiani. Per contro, nel 1396, cioè solo dopo dieci anni, Bernardo da Venezia inizia la celeberrima Certosa presso Pavia, che avrebbe dovuto essere per la gloria eterna la Cappella-Mausoleo dei Visconti. Venne completata in circa un secolo e mezzo (un tempo relativamente breve vista la estrema complessità dell’opera), ma dal punto di vista stilistico risultò una perfetta fusione in chiave lombarda degli stili Gotico e Rinascimentale.

MATERIALI DA COSTRUZIONE E LORO REPERIMENTO

Gian Galeazzo Visconti mise a disposizione della Fabbrica del Duomo una cava di marmo posta sulle alture presso Candoglia nella Bassa Val d’Ossola. Contrariamente alla vulgata, che attribuì a Gian Galeazzo la fama di benefattore a tutto tondo, la Fabbrica del Duomo doveva con denari propri provvedere all’escavazione dei blocchi di marmo e trasportarli fino al cantiere ambrosiano, mentre il Conte di Virtù si riservava di offrire gratuitamente la cava, esentando da qualsiasi gabella i materiali durante il difficile trasporto su fiumi, laghi e canali di sua proprietà. Il marmo di Candoglia è un bellissimo calcare bianco rosato con venature azzurro bluastre. Si è formato circa 800 milioni di anni fa attraverso la metamorfosi di grandi banchi di sabbie chiare, lenti di fanghiglia e conchiglie sottoposte a pressioni e temperature elevatissime per centinaia di milioni di anni. A poco a poco, per spinta tettonica, il banco è risalito in superficie e da circa 200 milioni di anni è a disposizione di chi lo vuole cavare. Dal 1386 ad oggi ne sono state cavate e squadrate in blocchi o lastre almeno 600.000 tonnellate. Si calcola infatti che il Duomo di Milano sia composto da non meno di 300.000 tonnellate di marmo di Candoglia, oltre ad altri marmi preziosi utilizzati per i pavimenti e per altre decorazioni, nonché  100.000 tonnellate di granito di Montorfano impiegato per le fondamenta e lo zoccolo perimetrale. Poiché l’anidride carbonica presente in atmosfera ed altri agenti corrosivi in sospensione aerea attaccano il calcare di Candoglia, ingrigendolo e sfarinandone la superficie, è necessario monitorarlo costantemente, specie per quelle parti esposte agli agenti atmosferici esterni, sostituendo lastre, blocchi, statue e ogni tipo di decorazione lapidea qualora se ne valuti l’opportunità. Si calcola pertanto che attualmente, specie sulla rivestitura esterna del Duomo, non ci sia più alcun blocco originale, essendo stato sostituito da marmo più sano nel tempo. Il Duomo di Milano è un’opera in continuo divenire. Come lo spirito dei milanesi. Ma come hanno fatto questi pesantissimi blocchi di marmo ad arrivare con cronometrica precisione e per cinque lunghi secoli fino al cantiere di Milano? Dalla cava di Candoglia una volta cavato e sbozzato a mano e con il solo uso di scalpelli e di cunei di legno, il blocco scendeva a fondovalle con slitte frenate, mediante piani inclinati (la celebre lizzatura, ancora oggi rievocata ad uso dei turisti nelle cave di Carrara). Raggiungeva il fiume Toce e veniva caricato sulle chiatte che, dapprima sul fiume poi attraverso il lago Maggiore fino a Sesto Calende, si inoltravano lungo il corso inferiore del Ticino e all’altezza di Cascina Castellana (vicino all’attuale aeroporto di Malpensa) entravano nel Naviglio Grande (allora conosciuto come Navigium de Gazano), un canale lungo 50 chilometri scavato tra il 1177 e il 1257 che puntava su Milano. A Milano, giunta la chiatta nei pressi della Basilica di Sant’Eustorgio, a porta Ticinese, per altre vie d’acqua interne “risaliva” per mezzo di chiuse fino al Laghetto, dove oggi c’è via Verziere e piazza Fontana, cioè a meno di duecento metri dal cantiere! Per riconoscere le merci trasportate dalle chiatte esenti da gabelle, venivano contrassegnate dalla scritta A.U.F.O. cioè: “Ad usum fabricae operis. L’espressione “a ufo” è ben presto entrata nel gergo lombardo con un duplice significato: la consuetudine di dare passaggi gratuiti alle persone che dalle località rivierasche del lago, del fiume o del naviglio dovevano recarsi a Milano. Ricordiamo per inciso che ancora sul finire del ‘5oo il cardinal Borromeo utilizzava la stessa via d’acqua quando doveva recarsi dal suo castello di Angera, sul lago Maggiore, a Milano. L’altro significato più popolaresco del detto “a ufo” era ed è ancora oggi riferito all’atto di ottenere furbescamente qualche cosa a titolo gratuito! Immaginiamo la complessità della logistica per rifornire la Fabbrica di marmi in continuazione: erano 120 chilometri di via d’acqua, ed una volta scaricate le imbarcazioni, queste dovevano risalire a Candoglia ( altri 120 chilometri ), trainate controcorrente da cavalli, da bovini o anche da uomini che arrancavano faticosamente sull’alzaia del canale o sulla riva del fiume! Nel frattempo il cantiere avanzava lentamente fra mille difficoltà ed inconvenienti. Nel 1392 in un convegno di “maestri” (gli architetti di allora) quelli tedeschi criticarono aspramente i colleghi italiani per certe soluzioni, da loro ritenute troppo rischiose. Stessa situazione nel 1399 con forti censure da parte del maestro francese Mignot. Ma già ai primi del ‘400 sulla porzione di chiesa già costruita, e cioè, abside, parte del transetto e le prime campate delle cinque navate, viene iniziata la copertura con un originale e mai prima sperimentato tetto, sistemato a falde plurime sovrapposte in marmo. Metodo assai criticato dai goticisti d’oltralpe, ma che ha già sfidato egregiamente sei secoli di vita. Verso il 1415 compaiono le prime lastre dei meravigliosi vetri piombati multicolori. Purtroppo le più belle e antiche vetrate, quelle dei tre grandi finestroni absidali, andarono distrutte all’inizio dell’epopea napoleonica in Italia per pura stoltezza umana. Gli spari a salve delle artiglierie pesanti in onore della festa della Repubblica le infransero, facendole cadere per lo spostamento d’aria. Fra i vari direttori dei lavori del periodo molto fecondo per l’avanzamento dell’opera va ricordato Filippino da Modena che per oltre quarant’anni portò a compimento importanti opere strutturali fondamentali. Nel 1450 mancava ancora la costruzione di sei campate verso la futura facciata, per completare la pianta definitiva del Duomo. Nel 1453 viene demolita la chiesa di Santa Tecla ormai sovrastata dal nascente Duomo, e viene abbattuta per volere di Francesco Sforza la porzione di Arengo che interessava l’area del Duomo. Per capire le difficoltà e le incongruità del tempo va ricordato che ancora a metà ‘400, con le funzioni religiose già celebrate, sia pur a fasi alterne, di primissima mattina i carri degli ortolani per raggiungere il verziere(nei pressi dell’attuale via omonima) attraversavano il cantiere percorrendo.. le attuali navate laterali del Duomo, non essendo ancora stato costruito il sovrastante tiburio! Nel 1487 in piena Era Rinascimentale (nel frattempo prendevano vita a Milano l’Ospedale Maggiore e Santa Maria delle Grazie, capolavori del nuovo stile) iniziava la fase finale della costruzione del tiburio, naturalmente in stile Gotico, sotto la direzione dei grandi Amadeo e Dolcebono. Il tiburio viene completato il 24 settembre 1500 insieme alle quattro bellissime e raffinate grandi guglie, caratterizzate dalle scale a spirale che le avvolgono, di supporto e sostegno al tiburio stesso. Dal 1500 al 1567 grande crisi e fermo lavori per pestilenza, invasioni alemanne e disgrazie varie. Nel 1567 l’architetto Pellegrino dei Pellegrini attua una svolta epocale: abbandona lo stile gotico per passare allo stile rinascimentale. Con Carlo Borromeo cardinale e la Controriforma imperante c’è una maggior libertà stilistica; anzi c’è un caldo invito a progettare nel nuovo stile. Azzardo un’ipotesi: forse il gotico, oltre ad essere uno stile superato, ricordava le molte chiese e cattedrali d’oltralpe passate ai Protestanti. Era nata la nuova linea stilistica che guardava a Roma ed allo stile che vi stava dominando doveva assoggettarsi anche il nascente Duomo di Milano. Dal ‘600 inizia la lunga saga dei progetti per la facciata, già terminata al grezzo di soli mattoni. Un progetto caratterizzato da sei enormi colonne monolitiche in marmo di Candoglia naufraga sul nascere quando il primo monolite si spezza nel tentativo di caricarlo su una grande chiatta. Bernini, interpellato, da dei pareri nel 1651, ma non si sa se vengono messi in pratica. Nel ‘700 si fa poca architettura, ma moltissimi abbellimenti con statue e decorazioni varie. In quel periodo, specie all’interno del Duomo, appaiono le prime opere in stile Barocco. Di quel secolo si possono ricordare le quattro finestre, ancora in stile rinascimentale, sulla facciata. Nel 1765 inizia la costruzione della guglia centrale sotto la direzione di Merlo che termina nel 1769. Nel 1774 arriva a 108 metri di altezza la celebre “Madunina de Milan”, opera del Bini, e dedicata, come tutta la cattedrale, a Santa Maria Nascente. Nel 1806 Napoleone esige il completamento della facciata per la sua incoronazione, e fa redigere in tutta fretta alcuni progetti, per la verità molto modesti. Non se ne fa niente e la facciata come la conosciamo oggi viene completata solo nel 1821, quando per Napoleone il milanese don Lisander pone come incipit alla poesia Cinque maggio l’esclamazione: “Ei fu”. Nel Novecento vengono inaugurate le porte in bronzo in sostituzione dei battenti in legno: la porta centrale è del 1906, mentre le quattro laterali vengono inaugurate tra il 1948 ed il 1965. È rimasto un bozzetto e alcuni particolari di un progetto di Lucio Fontana che avrebbe potuto firmare una delle quattro porte minori, ma fu scartato. Peccato! La Fabbrica del Duomo dopo seicento anni di attività, a volte difficile, a volte frenetica, non ha certo chiuso i battenti con il completamento della cattedrale. La manutenzione di una costruzione così imponente (lunghezza m.158, larghezza m.93, cinque navate alte una cinquantina di metri sostenute da 52 piloni del diametro di m. 3,50 ) esige una continua attività di monitoraggio e di sostituzione di quei blocchi o lastre di marmo di Candoglia che il tempo e l’inquinamento hanno deteriorato. È stato calcolato che il Duomo sia composto di circa 550.000 pezzi di marmo! Ricordo sinteticamente che in Duomo ci sono, oltre alla guglia centrale della Madonnina, altre 134 guglie di varia altezza, 200 altorilievi, centinaia di doccioni e pinnacoli, 3.400 statue di cui 1.100 all’interno e 2.200 all’esterno. La Veneranda Fabbrica del Duomo, il cui Consiglio era composto all’inizio da 105 persone, ma che nel 1395 raggiunsero il numero record di 255 consiglieri, rappresentava fin dalla sua fondazione la più genuina espressione della partecipazione corale di tutta la città di Milano alla costruzione del suo Duomo. Ancor oggi la Fabbrica del Duomo, anche se ovviamente con un numero più ridotto di consiglieri, esprime attraverso la sua attività lo spirito che ebbe fin dalla sua fondazione. Il Duomo è un’opera stilisticamente non purissima, ma che nel complesso sbigottisce ancor oggi il fedele o il semplice turista in visita per la potenza che esprime e non può non far pensare alla immensa fede religiosa che permeò per secoli uomini coraggiosi e determinati. La sistemazione della piazza del Duomo nel 1870 da parte dell’architetto Mengoni non ha certo valorizzato la vista della cattedrale: l’opera si erge ora troppo isolata in una immensa piazza rettangolare formata da architetture eclettiche, monumentali, ma stilisticamente non in armonia . Ben diverso doveva essere lo stato d’animo del visitatore della prima metà dell’Ottocento quando , sbucando dal portico del Figino gli si parava innanzi la mastodontica facciata del Duomo con la fuga di guglie del fianco settentrionale della chiesa. Per fortuna il bravo pittore bresciano Angelo Inganni ci ha lasciato una testimonianza che fa rivivere le sensazioni provate allora. Ma la vista dell’abside del Duomo, la parte architettonica più bella e armonica in assoluto, dal marciapiedi antistante l’Arcivescovado, inquadrando in prospettiva il fianco sud del Duomo, su su fino alla guglia della Madonnina, che pare perdersi nel cielo, è una di quelle immagini che rimangono per sempre impresse nei ricordi del turista o del milanese che semplicemente vi transita per motivi di lavoro. Vorrei concludere con una testimonianza di chi non te lo aspetti. Il presidente degli Stati Uniti Theodore Roosvelt a Milano nel 1887 alla vista del Duomo esclamò: “Mi dà una sensazione che non ho mai avuto altrove, eccetto tra le montagne selvagge o nelle vaste pinete in cui gli alberi sono molto alti e non troppo vicini”

Giuseppe Perotti